Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

L’aggressività come risorsa – di Roberto Marchesini

Aggressività

 Che cosa è l’aggressività? In che cosa si differenzia dai fenomeni di aggressione? Che ruolo ha l’apprendistato materno nell’orientare e mitigare i fenomeni aggressivi? Cosa si nasconde dietro al morso del cane? Sono solo alcune delle domande che trovano risposta nel testo qui presentato.

Molto spesso si confonde l’aggressività, che è una metacomponente posizionale esattamente come la memoria è unametacomponente elaborativa, con il comportamento di aggressione, quando in realtà si tratta di due elementi cognitivo-comportamentali totalmente differenti. Quando affermiamo che l’aggressività è una metacomponente posizionale vogliamo dire in pratica che, come nel caso della memoria per le attività elaborative e rappresentazionali, l’aggressività è una risorsa del sistema che posiziona il soggetto nel suo qui e ora, contribuendo a sostenere quelle istanze che vengono classificate in etologia come emozioni e motivazioni.

In altre parole, l’aggressività interviene per sostenere le istanze motivazionali nel raggiungere i propri orientamenti, sia in termini di obiettivi che di espressività, e parimenti per far sì che la risposta emozionale sia in grado di riportare il soggetto in una condizione di omeostasi rispetto agli eventi stimolativi e situazionali che l’individuo si trova a vivere.

L’aggressività pertanto, proprio come il livello di arousal, è un gradiente che può assumere diversi livelli a seconda di due fattori d’influenza: i) l’oggettiva o presunta tale criticità delle condizioni ambientali; i) il grado di compromissione interna dell’individuo rispetto ai parametri omeostatici. L’aggressività pertanto è un po’ come il sale che si mette in una pietanza, può essere deficitario e allora avremo un alimento insipido come peraltro può essere eccessivo e allora anche in questo caso guasterà il prodotto finale. Diciamo allora che l’aggressività è l’elemento metaposizionale che consente di adeguare la forza di sottolineatura delle istanze sulla base di necessità variabili.

Di certo se privassimo un animale di aggressività, così come se lo privassimo della memoria, vedremmo venir meno fino a scomparire tutta l’espressione posizionale: le motivazioni non motiverebbero, e il soggetto più che rinunciare proprio non entrerebbe in una fatica di raggiungimento di un obiettivo; le emozioni diverrebbero labili e impercettibili fluttuazioni umorali, incapaci di mettere il soggetto al riparo dalle situazioni pericolose o di godere pienamente con entusiasmo delle situazioni piacevoli.

Fortunatamente non potrebbe esistere la condizione animale senza aggressività perché tutti i bisogni fisiologici di un animale, come mangiare, guadagnarsi uno spazio di vita, allontanare un fastidio, difendersi da una minaccia, riprodursi e proteggere i propri cuccioli, solo per fare qualche esempio, richiedono l’intervento di un pizzico di aggressività.

Se abbiamo compreso il significato produttivo del l’aggressività, non per questo dobbiamo fare l’errore contrario nel credere che non vi possano essere situazioni dov’è questa metacomponente può facilitare comportamenti di aggressione, ma occorre esaminare accuratamente la questione senza avere la pretesa di trovare facili colpevoli. Esistono molte classificazioni delle aggressioni e dei fattori che le determinano o influenzano, per cui non credo sia il caso di affrontarle e di approntarne un’analisi critica. Credo tuttavia sia improprio far discendere in modo diretto l’aggressione dall’aggressività o ritenere che l’aggressione altro non sia che l’espressione dell’aggressività. Credo al contrario che il comportamento di aggressione sia il risultato di una convergenza di fattori, ovviamente anche con il concorso del l’aggressività ma di certo non con il ruolo primario di quest’ultima.

In particolare in molte situazioni di morso appreso nel cane, il ruolo dell’aggressività è a mio parere assai modesto. Ma mettendo da parte questa specifica situazione, che coinvolge soprattutto l’ambito rappresentazionale, ove cioè il morso è diventato uno strumento multiuso, una sorta di coltellino svizzero che si è rivelato utile in molte occasioni e il cui uso non comporta particolari fatiche o vincoli, possiamo dire che nei casi di aggressione emozionale, per esempio da paura o da irritazione, oppure di pertinenza motivazionale, come nel caso della territorialità o del possesso, è il sistema posizionale nella sua interezza a essere coinvolto.

Vediamo allora, senza aver la pretesa di esaurire l’argomento o di essere particolarmente esaustivi come l’alterazione dei due sistemi e la reciproca interazione possano influenza la risposta di aggressione. Partendo dal sistema motivazionale, vale a dire da quel sistema che orienta e mette in moto il soggetto in un’attività volta a un particolare target, l’aggressione può essere classificata a seconda della motivazione implicata ed è un po’ quello che ritroviamo nelle classificazioni situazionale, soprattutto di matrice anglosassone.

In questi casi avremo un’aggressione protettiva, possessiva, territoriale, competitiva, da dominanza, predatoria e via dicendo. In questi casi allora saremmo portati a puntare l’indice sulla motivazione, cosa che purtroppo è stata fatta, non tenendo conto che ogni motivazione può essere messa al riparo dal rischio di aggressione semplicemente attraverso una corretta canalizzazione.

Certo, se una motivazione è fuori controllo il problema può porsi, ma non è imputabile al gradiente motivazionale, cioè alla forza di quella motivazione in quella particolare razza o in un determinato individuo, bensì nell’incapacità di dare un contenuto espressivo adeguato. Ma non vi è dubbio che esistano anche altri fattori che incidono sul sistema motivazionale oltre alla mancanza di una disciplina espressiva e occorre tenerne conto. Innanzitutto se il cane ha avuto una deprivazione materna non gli è stata insegnata la gestione della frustrazione, vale a dire il saper rassegnarsi di fronte a vincoli strutturali o sociali che gli vengano imposti, con il risultato che qualunque istanza assumerà nel soggetto un valore assoluto e inderogabile, portandolo a confliggere anche attraverso comportamenti di aggressione nei confronti di chi lo limita o lo osteggia.

In secondo luogo occorre sempre valutare l’accreditamento di chi si sta relazionando con il cane, perché se l’individuo non ha la minima considerazione di te difficilmente accetterà delle limitazioni da parte tua. Non dobbiamo poi dimenticare le abitudini contratte dal cane che con il tempo assumono il valore di leggi espressive e un cane non abituato a farsi limitare da una persona potrebbe aggredire se posto in situazioni di vincolo rispetto a quelle prerogative verso cui è abituato. Inoltre, se il cane fa poca attività, cioè vive in una continua situazione di disagio da mancanza espressiva, può trovarsi nella condizione di esubero motivazionale, ciò di sentire come pressante l’urgenza espressiva con il risultato di non accordare ubbidienza a chi lo limita, soprattutto se questi lo lascia sempre da solo e in una condizione d’inattività, non avendo anche per questo l’accreditamento da parte del cane.

Una motivazione infine può assumere un gradiente molto alto e parimenti incontrollato se, a fronte di un errato posizionamento del cane e di una mancanza di disciplina espressiva, si aggiunge un aumento di arousal causato da qualunque motivo, come una novità, l’improvvisa uscita da una situazione di contenimento o un’eccitazione indotta dal comportamento dei presenti. D’altro canto anche un elevato valore del target può accrescere il gradiente dell’istanza motivazionale e far sì che il soggetto metta troppo sale nel confezionare l’alimento comportamentale.

Se comprendiamo questi fattori, diviene evidente come agire per mantenere alto il livello motivazionale del soggetto mettendosi parimenti al riparo dal rischio di aggressione: i) lavorare sul proprio accreditamento e su un corretto posizionamento sociale del cane; ii ) dare una precisa disciplina espressiva soprattutto nelle motivazioni prevalenti; iii) evitare situazioni di inattività del cane e proporsi come una sorta di mister capace di ingaggiare e di favorire il ruolo ausiliativo del cane; iv) non lasciare per troppe ore il cane da solo ed evitare situazioni di prolungato contenimento del soggetto; v) dare un’attivazione d’arousal che sia sempre correlate al livello di richiesta cinetico-espressiva che il cane deve e può mettere in atto in un particolare momento; vi) fare in modo che la gestione dei target sia sempre condivisa.

Sono solo pochi consigli che credo meritino una discussione e, ovviamente, aggiunte e approfondimenti. Anche il sistema emozionale è coinvolto in prima persona nel rischio di aggressione e, anche in questo caso, non sono tanto le emozioni a dover rispondere del capo d’imputazione quanto altri fattori che hanno un’influenza diretta sul sistema emozionale. Come nel caso del sistema motivazionale, un deficit del processo di sviluppo del cucciolo può essere al base di un certo livello di emotività del cane una volta adulto.

Due in particolare sono le situazioni evolutive che con più facilità danno origine a una condizione emotiva, che potremmo definire come tendenza a dare una risposta emozionale di alto gradiente a eventi che non lo meriterebbero: i) un deficit nella costruzione del filtro emozionale dovuta a una condizione di privazione o ipostimolazione sensoriale nei primi mesi di vita del cucciolo che ha dato vita a una condizione dì ipersensibilità; ii) un trauma o iperstimolazione sensoriale che in genere provoca una sensibilizzazione ricettiva o reattiva che in breve tende ad allargarsi attraverso fenomeni di generalizzazione.

Con il tempo l’emotività può ulteriormente peggiorare o a confinarsi in ambiti ben precisi della vita del soggetto – stimoli o accadimenti particolari – anche per altri fattori esacerbanti come la fluttuazione di arousal, la focalizzazione relazionale, l’impossibilità di trovare condizioni rifugio, l’incapacità del proprietario di alleggerire la situazione, l’incentivazione attentiva, la mancanza di esperienze di autoefficacia. L’emotività è un problema perché mette il soggetto in una condizione percepita di estrema gravità che quindi sollecita delle risposte di salvaguardia del proprio stato anche laddove non sarebbero necessarie. Un ulteriore fattore importante che può sovrasollecitare il sistema emozionale fino a portarlo all’espressione di un’aggressione reattiva è il deficit di socializzazione, soprattutto secondaria ossia quella rivolta all’essere umano.

Molti cani ferali o semiferali non sono proprio in grado di gestire le sollecitazioni emozionali che giungono loro dalla coabitazione coatta o da una relazione che si pretende intima, fatta cioè di gestioni strette, di carezze prolungate, di confinamenti e via dicendo. Il deficit di socializzazione porta a una sorta d’intolleranza alla continua frequentazione dell’umano, con atteggiamenti d’irritazione che possono sfociare in comportamenti di aggressione. Anche il confinamento in uno spazio domestico o comunque non troppo piccolo da poter fungere da riparo e non troppo vasto da poter dare possibilità di fuga, in pratica una stanza, non fa altro che ingigantire la risposta emozionale di paura verso particolari stimoli verso cui si è avuta una ipostimolazione o al contrario un trauma.

Vorrei anche segnalare che il sistema emozionale risente moltissimo delle condizioni generali del soggetto, per cui un’alterazione fisiologica, uno stress prolungato, l’essere sottoposti a continue stimolazioni fastidiose, la mancanza di attività, solo per fare qualche esempio, sono tutti fattori di alterazione del sistema emozionale che a lungo andare possono portare a un’emotività sistemica e a un conseguente rischio di aggressione. Va detto tra l’altro che le due più importanti emozioni negative che stanno alla base della risposta conflittuale, vale a dire la paura e la collera, risentono altresì di due fattori ulteriori: i) il posizionamento sociale e ii) le condizioni di agibilità della situazione.

Per chiarire, tanto la paura quanto la collera possono portare il soggetto al conflitto oppure no; nella seconda opzione in genere la paura da luogo a un allontanamento del soggetto mentre la collera si risolve in comportamenti di ridirezione. Cosa porta il soggetto al conflitto piuttosto che alla seconda opzione? Direi prevalentemente le due variabili sovraesposte. In altre parole, la risposta di aggressione da paura o da collera si verifica quando la situazione non prevede condizioni di fuga o di ridirezione e parimenti quando la controparte viene avvertita come un sottoposto, per usare impropriamente una definizione.

Ma c’è un aspetto che più di altri influenza la risposta di aggressione mobilitata dal sistema emozionale, vale a dire la capacità di gestione delle emozioni. L’esperienza riempie la biblioteca corticale del cane di conoscenze e competenze, nonché di abitudini e stili relazionali e non ultimo di autocontrolli che rappresentano la migliore ipoteca all’espressione conflittuale dei propri stati emozionali. Le esperienze sono altresì importanti perché definiscono delle precise marcature emozionali agli eventi e se si lavora correttamente nella costruzione delle marcature emozionali avremo un soggetto assai meno sottoposto all’emotività conflittuale.

Vorrei a questo punto prendere in considerazione l’aggressione appresa e parimenti la mancanza di apprendimenti che rappresentano una forte limitazione alla traduzione del l’aggressività in aggressione. Innanzitutto va detto che il cucciolo riceve dal genitore, nel rapporto diretto con la madre e nei rapporti di cucciolata mediati dalla madre, degli importanti insegnamenti tesi alla ritualizzazione dell’espressione aggressiva. Sono proprio quelle specie dotate di zanne e di artigli e più in generale di strumenti offensivi come corna o palchi, che presentano le più articolate forme di ritualizzazione competitiva, come già aveva notato Konrad Lorenz.

In parte le ritualizzazione rispondono a coreogrammi comportamentali innati che tuttavia richiedono certe forme e condizioni di interazione per potersi attuare. L’etologo austriaco, per esempio, faceva notare l’importanza del rapporto diretto, non mediato da armi da fuoco o da aeroplani, per costruire la corretta dinamica di ritualizzazione capace di bloccare l’aggressione. Spesso l’essere umano non tiene conto dell’etogramma del cane e non consente tra cani la messa in atto di quella dialettica di dominanza e sottomissione che rapprese nota il cespiti principale della ritualizzazione del l’aggressività. Altre volte è l’essere umano che nel confronto mette in atto dei comportamenti che invece di placare l’aggressività del cane non fanno altro che incentivarla facendo emergere un comportamento di aggressione. Ma, come dicevo, i meccanismi di ritualizzazione solo in parte sono innati, perché i mammiferi con la loro natura di semilavorati nel profilo di specie richiedono finissaggi esperienziali e trasmissivi che si realizzano nei primi mesi dell’età evolutiva.

La madre è pertanto fondamentale non solo per impartire la gestione della frustrazione ma anche per stabilire alcune regole sociali di base che, valide nel mondo dei cani, diventano preziosi punti di appoggio per allargarne la declinazione su regole di rapporto con l’essere umano. La mamma insegna il modo corretto di comunicare le proprie disposizioni e intenzioni e anche questo vasto repertorio comunicativo rappresenta un ausilio fondamentale per tenere sotto controllo il primo impulso conflittuale e diminuire quelle situazioni d’incomprensione che stanno alla base del conflitto diretto. Il cane ringhia, infatti, proprio per evitare di doversi far valere attraverso un’aggressione.

La madre che impartisce cure parentali al cucciolo e che così facendo si pone come interlocutore superiore trasmette le basi del comportamento di sottomissione allorché pone il cucciolo a pancia all’aria esaminandolo in area ventrale e perineale. Se poi il cucciolo non si placa al comportamento di arresto interattivo e di splitting messo a punto dalla madre, ella interviene anche in modo brusco per bloccarlo. Il cucciolo sta imparando ad accettare situazioni di sottomissione senza reagire e questo è un contributo fondamentale al processo di ritualizzazione.

Ma è soprattutto nel gioco di cucciolata che si realizzano le basi della ritualizzazione perché i fratelli giocando provano tutti i comportamenti che poi verranno espressi nelle dinamiche interattive degli adulti. Nella palestra di cucciolata il cane apprende la gestione del morso, il controllo della propria esuberanza, la capacità di desistenza, la comunicazione di dominanza e sottomissione. Si tratta di un apprendistato importante che non deve venire a mancare pena l’incapacità del cane di sviluppare in interezza le proprie capacità di ritualizzazione dell’aggressività.

Talvolta tuttavia a creare dei problemi non è una mancanza di apprendimento ma il suo contrario: l’apprendere che con il morso si ottiene tutto nelle relazioni sociali. Alla base di questo problema c’è sempre un alterato posizionamento sociale, un aspetto che troppo spesso viene negato nella cinofilia attuale ma che ritengo sia invece alla base del modo in cui il cane costruisce la relazione. Ovvio il cane non considera la leadership al modo in cui la interpretiamo noi umani, per lui è piuttosto un definire che è la guida e il coordinatore del gruppo, una sorta di mister che è vantaggioso seguire, un timoniere sicuro nella rotta e una sorta di avvocato che ti alleggerisce dai problemi.

Sono ovviamente metafore che utilizzo per cercarmi di avvicinarmi a questa immagine così importante per il cane che noi umani stentiamo a capire o che fuorviamo attraverso costruzioni antropocentriche o negligenze. Comunque, se il cane non ti accredita il conflitto è sempre dietro l’angolo, perché paradossalmente chiediamo a lui di assumere la leadership e poi pretendiamo di gestirlo come se fosse un bambino. Il cane all’inizio fa resistenza, minaccia, ringhia, ma poi arriva il momento in cui può rivoltarsi e mordere. E qui il guaio diventa ancora peggiore perché in breve il cane apprende che mordendo ottiene quello che vuole cosicché non minaccia più ma arriva direttamente a mordere senza alcun tipo di avvertimento. Siamo passati dalla ritualizzazione tesa a incentivare la minaccia e a evitare l’aggressione, nel suo contrario, la strumentalizzazione ove cioè si viene a perdere la minaccia e si incentiva la fase di aggressione.

Talvolta la funzione strumentale dell’aggressione, il suo divenire a tutti gli effetti un operante, determina una sorta di dissociazione tra l’aggressione e l’aggressività per cui la prima si realizza senza quasi aver bisogno di un incremento della metacompomoonente aggressiva.

Per concludere ci tengo a sottolineare l’importanza dell’aggressività come risorsa che consente agli animali di esprimere il fulcro stesso della loro animalità, vale a dire l’essere portatori di interessi inerenti che vanno salvaguardati a tutti i costi.

Copertina Animal Studies Aggressività

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Il presente saggio fa parte del numero 22 “Il cosiddetto male. L’aggressività nel mondo animale” di Animal Studies. Rivista italiana di zooantropologia. Per chiunque desideri informazioni sulla rivista o sottoscrivere l’abbonamento (25 euro per 4 numeri anni) può contattare la redazione ala mail animalstudiesrivista@gmail.com oppure cliccare qui.

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