Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

Goodall, Fossey e Galdikas: le Signore delle Scimmie

Goodall, Fossey e Galdikas

di Roberto Marchesini

Dagli studi effettuati, sappiamo oggi che il nostro genoma è per il 70% simile a quello dello scimpanzé e per il 15% a quello del gorilla (Durbin, Dutheil e Scally, 2012).

Ciò che abbiamo in comune con le grandi scimmie antropomorfe non riguarda solo l’aspetto o la fisiologia, ma anche la gamma di comportamenti e di emozioni. Solo fino a cinquant’anni fa, i primati erano visti in tutt’altro modo e per un lungo tempo in Occidente l’idea del gorilla era rimasta quella di un King Kong testosteronico che se ne andava in giro impazzito a rapire donne. Negli anni ‘60 e ‘70 alcune intrepide studiose cambiano la primatologia: i loro studi su scimpanzé, gorilla e oranghi sono tra le ricerche sul campo più lunghe mai realizzate su singole popolazioni di animali selvatici.
Jane Goodal, Dian Fossey e Biruté Galdikas hanno lottato e lottano per divulgare la conoscenza e incentivare la conservazione, la protezione delle grandi scimmie e, ognuna con il proprio originale contributo, hanno ridefinito la relazione fra l’essere umano e gli altri primati.

Jane Goodall

Jane Goodall nasce a Londra nel 1934. Fin da giovanissima mostra un grande interesse per gli animali in genere. Così, mentre le sue coetanee si dedicano a spazzolare le bambole, Goodall legge Tarzan e Dr. Dolittle e si intrufola nel pollaio per vedere da dove provengano le uova. Sogna di andare a vivere un giorno tra gli animali selvatici e, per sua fortuna, la madre la incoraggia senza remore a perseguire i suoi sogni, e questo in un periodo in cui le ragazze non vengono certo spronate a dedicarsi alla scienza. All’età di ventitré anni, insieme ad un’amica, fa un viaggio in Africa, dove incontra il famoso paleoantropologo Louis Leakey. In questo periodo, Leakey sta portando avanti uno studio pionieristico sulle origini dell’uomo, determinato a dimostrare la teoria di Darwin secondo cui l’evoluzione umana inizia in Africa; inoltre, Leakey è convinto che più si cerchi nel passato più cose si possano imparare sui collegamenti fra l’essere umano e gli altri primati.

Al momento in cui Goodall inizia il suo percorso, si conosce poco del comportamento delle grandi scimmie in natura. Leakey rimane impressionato dall’entusiasmo e dall’energia della ragazza, tanto da nominarla sua assistente e chiederle di dirigere un progetto di ricerca sugli scimpanzé in Tanzania. Nell’estate del 1960, Goodall arriva alla base nell’area del Gombe e iniziano le osservazioni. Occorre un po’ di tempo perché gli scimpanzé si abituino alla sua presenza, ma in un lasso di tempo piuttosto breve Goodall arriva ad accumulare una serie di annotazioni bastevoli a sconvolgere gli addetti ai lavori, e non solo: gli scimpanzé non sono vegetariani, ma si nutrono anche di carne. Goodall è riuscita ad osservare come gli scimpanzé adottino precisi schemi di caccia e si nutrano non solo di insetti ma anche di piccoli primati come i colobi.
A breve distanza, arriva a fare una seconda rivoluzionaria osservazione: vede due scimpanzé che strappano le foglie da alcuni rametti per infilarne le estremità in un termitaio ed estrarre gli insetti per cibarsene. È la dimostrazione che non soltanto i primati usano strumenti, ma sono anche in grado di fabbricarli. Fino a questo momento, l’antropologia aveva definito umanità proprio la capacità di fabbricare utensili. Goodall riferisce per iscritto a Leakey delle sue osservazioni, al che lo studioso risponderà con la celebre frase:

“ora dobbiamo ridefinire il concetto di utensile, e dobbiamo ridefinire il concetto di essere umano, oppure dobbiamo accettare che anche gli scimpanzé siano umani”

Era il 1963.

Nel 1964, Goodall sposa il fotografo naturalista Hugo van Lawick, un barone olandese. Il loro figlio, con cui avrà un figlio, Hugo Eric Louis, che lei chiama affettuosamente Grub, “larva”.

In quello stesso periodo Leakey riesce a iscrivere la ricercatrice all’università di Cambridge per procurarle un master in scienze naturali, nonostante Goodall non abbia il diploma universitario: dovrà sottoporre l’insieme delle sue osservazioni all’esame della commissione giudicante e l’obiezione che le verrà mossa sarà quella di assegnare nomi propri ai soggetti del suo studio e non numeri, come era in uso negli studi di etologia. Ma Goodall studia individui, e gli individui hanno nomi e suoi scimpanzé si chiamano David Greybeard, Fifi e Goliath, perché le emozioni che provano e le complessità che mostrano non possono essere rese da un numero, obietterà Goodall. I suoi scimpanzé mostrano gesti riconoscibili nell’uomo, come abbracci, baci, colpetti dati sulla schiena o sulla testa, fare il solletico, tutti comportamenti che servono a creare stretti, fedeli e duraturi legami tra I membri di una stessa famiglia e di una stessa comunità.

Jane Goodall
Fotogramma dal video Jane Goodall: Hero and Visionary

Ha modo di osservare anche comportamenti di aggressività, dato che all’interno delle comunità di scimpanzé esistono gerarchie sociali che si instaurano spesso tramite conflitti e violenza.
Goodall osserva femmine dominanti uccidere femmine più giovani e praticare cannibalismo allo scopo di mantenere il loro ruolo di dominanza.
Nel 1965 Goodal fonda il Gombe Stream Research Centre, attivo ancora oggi. Separatasi da van Lawick nel 1976, sposa successivamente Derek Bryceson, membro del parlamento della Tanzania e direttore dei parchi nazionali del Paese. Grazie al suo potere, Bryceson proteggerà la riserva del Gombe fino alla sua morte avvenuta nel 1980.
Nel 1977, la ricercatrice fonda il Jane Goodall Institute, a sostegno di progetti di conservazione e sviluppo in Africa e che comprende una parte dedicata ai progetti giovanili chiamata Roots&Shoots.
Goodall osserva comportamenti mai documentati prima di allora – cooperazione, altruismo, tristezza, gioia, crudeltà – e apre la strada ad altri primatologi che stanno per iniziare le loro carriere, come Dian Fossey.
Le ricerche di Goodall hanno dimostrato che gli scimpanzé
1960: usano/costruiscono utensili; mangiano carne;
1964: mostrano di attuare piani progettati per raggiungere uno scopo specifico; usano oggetti fabbricati manualmente;
1966: sono suscettibili di contrarre poliomielite e AIDS;
1970: esprimono stupore (sono stati osservati ballare di fianco ad una cascata);
1974: intraprendono guerre tra gruppi;
1975: praticano cannibalismo; formano coalizioni per sfidare gli status sociali consolidati; trasferiscono femmine da un gruppo sociale a un altro;
1987: adottano scimpanzé rimasti orfani per crescerli come figli propri;
1994: intraprendono relazioni monogame a breve termine; osservano e imparano a fabbricare utensili osservando tali comportamenti in altri scimpanzé;
1995: possono avere parti gemellari; masticano piante medicinali.

Dian Fossey

Mentre Goodall si stabilisce nel Parco del Gombe, Fossey decide di usare i suoi risparmi per un viaggio in Africa. Nata nel 1932 a San Francisco, trascorre un’infanzia completamente diversa da quella di Goodall. In perenne scontro con i genitori, cresce in solitudine cercando la compagnia degli animali da cui ricerca affetto e accettazione. La sua famiglia ostacola il suo desiderio di studiare biologia e la ragazza si trova così a ripiegare su un diploma in terapia occupazionale dopo il quale si trasferisce in Kentucky per lavorare in un ospedale pediatrico. Per dieci anni, Dian lavora come terapista trattando i bambini malati e vivendo in una fattoria dove, nel suo tempo libero, si prende cura degli animali. Benché amasse vivere in una fattoria e lavorare con I bambini, non era abbastanza e nel 1963 Dian investe i soldi di un prestito che corrisponde al salario di un anno di lavoro in un viaggio di sette settimane in Africa. Là conosce Leakey, incontro che sarebbe rimasto negli annali dato che Dian, in quell’occasione, mentre osserva il fossile di una giraffa che Leakey le sta orgogliosamente mostrando, scivola sul reperto slogandosi una caviglia e vomitando nel mentre. Si tratta del primo ricordo di Louis Leakey a proposito di Dian Fossey.

Durante l’ultima tappa del suo viaggio, segue un tracciatore nel fitto della giungla ugandese per vedere un gruppo di schivi gorilla di montagna e ne rimane totalmente affascinata. Fa ritorno a casa, a Louisville, per pagare i debiti di viaggio e pubblica tre articoli sul giornale locale The Courier-Journal in cui racconta la sua esperienza africana. Più tardi, quando viene a sapere che Louisville sarà una delle tappe di una conferenza di Leakey, Fossey riesce ad incontrarlo. Sono passati tre anni dal viaggio in Africa, ma l’antropologo si ricorda perfettamente di Dian e accetta di inviarla nuovamente in Africa, questa volta per gestire uno progetto di ricerca sui gorilla di montagna. Allo scopo, Leakey le suggerisce di farsi estrarre l’appendice, precauzione dovuta ai racconti orribili che gli sono giunti all’orecchio di morti dovute ad attacchi di appendicite nel bel mezzo della giungla. Dian segue il consiglio e si fa asportare l’appendice, salvo poi venire a sapere che la richiesta era stata un test di Leakey per verificare la sua reale determinazione!
E così, nel 1967, all’età di trentacinque anni, Dian si trova alla guida di un campo di studio prima in Congo e poi in Rwanda. Vivrà in mezzo ai gorilla per diciotto anni e racconterà questa sua parte di vita nel libro Gorilla nella nebbia.

Nel giro di poco tempo, Dian crea il Karisoke Research Centre, il cui nome deriva dall’unione dei nomi dei due vulcani tra cui è situato l’accampamento, il Karisimbi e il Visoke. Si ritrova a vivere in una piccola tenda, a mangiare cibo in scatola e a passare il tempo spiando gorilla. Dato che questi ultimi conoscono gli esseri umani solamente nella figura dei bracconieri, inizialmente ha difficoltà ad avvicinarli; nel tentativo di abbassare il loro livello di allerta, comincia ad imitarli: si gratta vistosamente, emette grugniti, mastica germogli di bambù mentre cammina a quattro zampe appoggiandosi sulle nocche delle mani. Agisce in modo non assertivo per non innervosire gli animali. Una volta che alcuni soggetti ne accettano la presenza, la donna inizia ad osservarli sul serio: comincia a riconoscerli identificandoli dall’impronta nasale, data dalla forma delle narici e delle pieghe trasversali del naso, una pratica di identificazione che il biologo George Schaller aveva introdotto qualche anno prima nel suo studio pilota sui gorilla.

Temendo di non essere presa sul serio per la mancanza di titoli di studio specifici, sotto lo stesso supervisore di Goodall, Fossey ottiene un master a Cambridge. Più tardi, inizierà a comparare i successi nell’abituazione dei gorilla con il suo lavoro di terapia occupazionale. Durante la sua permanenza al Karisoke, Fossey ha modo di osservare le dinamiche sociali dei gorilla: gli individui creano forti legami familiari e questo li porta a difendere strenuamente i piccoli del gruppo, a prendersi cura dei feriti e dei membri più deboli. Osserva che alcune femmine vengono trasferite da un gruppo ad un altro; traccia le distanze giornaliere percorse dagli animali e studia i pattern vocali; annota che la loro dieta è costituita prevalentemente di vegetali con casi sporadici di coprofagia per il riciclo dei nutrienti permesso dalla re-ingestione dei semi. Osserva rari casi di cannibalismo e infanticidio. Come Goodall, attribuisce nomi propri ai gorilla osservati, in base alle loro caratteristiche e alla loro personalità.

Col tempo, il suo focus si sposta dallo studio e osservazione alla protezione dei gorilla, perseguitati dai bracconieri. La sua infaticabile attività si concentra sull’evitare loro di essere catturati, uccisi o di finire nelle trappole che i cacciatori tendono per catturare altri animali. Talvolta i bracconieri catturano cuccioli da vendere al mercato degli animali esotici: questo porta alla strage dell’intero gruppo da cui proviene il piccolo, poiché gli adulti intervengono a difendere vigorosamente la sua cattura. Le teste, le mani e I piedi dei gorilla vengono mozzati e venduti come grotteschi trofei – le mani usate come posacenere. Per la gente del luogo, Fossey diventa “la donna solitaria che vive tra le montagne”.

Dian Fossey e Puck
Dian Fossey e Puck. Foto ©The Dian Fossey Gorilla Fund

Nel 1977 le cose degenerano: muore Digit, il gorilla favorito di Dian, con cui aveva instaurato un profondissimo legame durato dieci anni. Il gorilla viene ucciso mentre cerca di difendere la sua famiglia e il suo cadavere è ritrovato decapitato. Per Fossey, si tratta di una dichiarazione di guerra e da quel momento decide di gestire le cose personalmente: crea il Digit Fund per finanziare le pattuglie anti-bracconaggio, distrugge trappole, intimidisce i bracconieri che riesce a catturare e, a quel che si dice, arriva a sottrarre bestiame ai locali per chiedere riscatti e a bruciare appostamenti di caccia; riesce a ottenere l’arresto per diversi bracconieri, molti dei quali saranno condannati a lunghi periodi di carcerazione; si oppone strenuamente al turismo ambientale perché i gorilla muoiono per alcune malattie portate dall’essere umano, come il morbillo. Nel 1978, tenta di impedire la vendita di due cuccioli di gorilla dal Rwanda alla Germania, allo zoo di Colonia. Durante la cattura dei due piccoli, venti gorilla adulti rimangono uccisi nel tentativo di difenderli.
Il Digit Fund, conosciuto attualmente come The Dian Fossey Gorilla Fund International, continua a finanziare il monitoraggio quotidiano operato dal Karisoke Research Centre.

Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1985, Dian Fossey viene brutalmente uccisa a colpi di machete nella sua capanna. Nonostante le molte teorie intorno alla sua uccisione, il caso non è mai stato risolto, ma è certo che la sua condanna a morte fosse nient’altro che una questione di tempo: alcuni mesi prima della sua uccisione, Fossey aveva firmato un contratto da un milione di dollari con gli Universal Studios per un film tratto dal suo libro Gorilla nella nebbia. Questo contratto le avrebbe consentivo di continuare a vivere tra i suoi adorati gorilla ancora per moltissimo tempo.
La sua tomba si trova al Karisoke, di fianco a quella di Digit.
Benché alcuni abbiano accusato Fossey di avere agito come una guerrigliera, la sua determinazione e il suo incredibile coraggio hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica sull’importanza di proteggere i gorilla di montagna. Oggi, il Rwanda continua a proteggere questa specie e la popolazione ha istituito il Kwita Izina, una cerimonia annuale in cui assegnano un nome ad ogni gorilla neonato e celebrano l’importanza di proteggere i gorilla e il loro habitat.

Biruté Galdikas

Biruté Galdikas nasce nel 1946 in Germania. I genitori, lituani, sono in viaggio per arrivare in Canada. La futura primatologa cresce così a Toronto, dove già all’età di cinque anni comincia a interessarsi alle origini dell’uomo e al suo rapporto con le altre scimmie. A sei anni legge un libro della serie per bambini Curioso come George (Curious George) e rimane incantata dalle esplorazioni che vi si raccontano. Durante l’infanzia, trascorre molto tempo nel bosco intenta a esplorare, immaginando di essere un nativo, un Urone o un Irochese, che osserva gli animali selvatici. Per tutto il periodo scolastico si interessa alle grandi scimmie antropomorfe finché decide che le sue preferite sono le scimmie rosse d’Asia, gli oranghi. All’età di diciannove anni si appassiona alle ricerche di Jane Goodall e sogna di intraprendere la stessa attività con gli oranghi.

Dopo una laurea in psicologia e zoologia, all’età di ventidue anni sta studiando per un master in antropologia alla UCLA, quando accade che Louis Leakey arrivi a tenere una conferenza proprio in quella stessa università. La ragazza si presenta al ricercatore e gli parla del suo desiderio di studiare gli oranghi in Asia. Superata l’esitazione iniziale, Leakey si convince a supportarla e a finanziare un progetto. Tre anni dopo, nel 1971, Galdikas è in viaggio per il Borneo, diretta verso uno dei pochi luoghi sul pianeta rimasti ancora del tutto incontaminati, la riserva del Tanjung Puting nel Borneo Sud-occidentale. Leakey e la National Geographic Society l’aiutano ad allestire la base: una capanna col tetto di paglia nel mezzo di una fittissima foresta pluviale, senza elettricità e senza vie d’accesso ad alcun villaggio. Galdikas non potrebbe essere più felice e battezza il luogo Camp Leaky.

Passeranno mesi prima che la donna riesca a intravvedere un orango, e le difficoltà di osservazione la porteranno a sviluppare delle strategie per iniziare a monitorare il comportamento di questa specie: nel momento in cui individua un soggetto, si mette a seguirlo senza indugio fino a che questi entra nel nido per la notte. L’indomani, si riparte dal nido e le osservazioni riprendono dove erano state interrotte il giorno prima. Il tallonamento degli oranghi la porta nelle parti più intricate e fitte della foresta, talvolta la costringe a restare immersa fino alla vita nelle acque paludose, alla mercé delle onnipresenti sanguisughe. Spesso si guadagna un torcicollo per tutto il tempo che trascorre a guardare verso l’alto per non perdere di vista il soggetto individuato.
Prima di Galdikas, gli oranghi erano le scimmie antropomorfe meno conosciute. Oggi, grazie a lei, li conosciamo meglio e alcune informazioni sono state smentite.

Biruté Galdikas
Biruté Galdikas. Foto ©Orangutan Foundation International

Non è vero che gli oranghi vivano in solitudine perpetua: i giovani mostrano dinamiche sociali e iniziano a sviluppare la tendenza a rimanere in solitudine man mano che invecchiano. Sono stati studiati i loro pattern di migrazione, osservando che alcune popolazioni rimangono nell’area in cui il gruppo si è formato, mentre altre sono più nomadi. Inoltre, Galdikas è la prima persona a documentare il ciclo di vita degli oranghi: grazie a lei, oggi sappiamo che le femmine si riproducono di solito una volta ogni otto anni e che l’unico piccolo che nasce rimane con la madre per tutto quel tempo. Per i primi dieci anni, i piccoli mantengono un rapporto strettissimo con la madre con cui rimangono perennemente a stretto contatto mantenendosi abbracciati ad esse. Un ciclo riproduttivo così lento li espone ad un altissimo rischio di estinzione. Solo i maschi adulti conducono una vita realmente solitaria, trascorrendo la maggior parte del tempo in cammino dentro la foresta alla ricerca di cibo. Galdikas scopre inoltre che dormono dentro a nidi sugli alberi che possono trovarsi anche a trenta metri da terra; mangiano più di quattrocento varietà di cibo e, durante I temporali, usano avvolgersi intorno alla schiena larghe foglie a mo’ di poncho.

Mostra che anche gli animali non umani hanno cultura, osservando una trentina di comportamenti presenti in una popolazione di oranghi e assente in un’altra, a dimostrazione che tali comportamenti sono stati tramandati di generazione in generazione e sono stati appresi.
Anche Galdikas ha modo di osservare la caccia agli oranghi per mano dei bracconieri, che ne ricavano carne, souvenir per i turisti, prodotti medicinali o che li catturano per il commercio di animali vivi.
Galdikas crea così l’Orangutan Foundation International che aiuta ad allevare gli oranghi rimasti orfani. I suoi detrattori sostengono che le osservazioni sugli oranghi orfani cresciuti nel campo non possono fornire dati attendibili per quel che riguarda il comportamento degli oranghi allo stato selvatico e accusano pertanto il progetto di mancare di scientificità. Galdikas continua comunque anche le osservazioni nell’habitat naturale.

Nel 1995 pubblica Reflections of Eden, che raccoglie le sue memorie a Camp Leakey e la descrizione dei tentativi di riabilitazione degli oranghi che avrebbe rimesso in libertà.
Negli anni, sviluppa relazioni molto intense con gli oranghi orfani che alleva: molti di loro rimangono avvinghiati a lei durante gli spostamenti, condividono con lei i pasti e le dormono a fianco. La studiosa afferma che l’intensità e la forza dei legami è pari a quella delle interazioni tra esseri umani.

Goodall, Fossey e Galdikas hanno mostrato che gli esseri umani non sono speciali come credono e che molti dei nostri comportamenti non ci sono peculiari e non sono esclusivi della nostra specie: gli altri primati sono altrettanto complessi, capaci di cooperazione, crudeltà, tristezza, felicità e altruismo e sono capaci di osservare, proprio come gli umani.

Purtroppo, nonostante i loro immensi sforzi, la sopravvivenza degli animali che sono stati e sono soggetto dei loro studi è gravemente a rischio, così come lo sono i loro habitat, compromessi forse irreversibilmente.

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