
di Nicola Gianini
Non capita spesso che gli animali siano protagonisti di una mostra artistica. Ma quando questo capita la curiosità e l’interesse sono in genere molto forti, a dimostrazione del fatto che l’animale suscita un ancestrale interesse, accende il nostro immaginario e cattura in modo quasi ipnotico la nostra attenzione. Dalle grotte di Lascaux agli studi di Da Vinci sulla conformazione delle ali degli uccelli, dai racconti dei bestiari medievali con i loro multiformi racconti alle opere musicali di Oliver Messiaen, la cultura umana ha continuamente contaminato e rinnovato se stessa nell’incontro e nella fascinazione con le alterità animali.
LAC di Lugano e William Wegman
Ne è una interessante prova la mostra proposta al LAC di Lugano (il nuovo centro culturale della città ticinese) e promossa dal MASI (Museo d’arte della Svizzera italiana) dove sono esposte immagini raffiguranti i cani dell’artista americano William Wegman: la gigantografia di un Weimaraner vestito di un rosso vivo e scintillante che accoglie i visitatori all’entrata del centro museale, rappresenta una sorta di totem, di invito sciamanico che stimola tutti noi a intrapprendere un viaggio di contaminazione di specie.

“A partire dagli anni Settanta “ – leggiamo nella presentazione distribuita nelle sale espositive – “dall’incontro con il suo primo Weimaraner, il pioniere della video arte e fotografo americano William Wegman ha fatto degli esemplari di questa razza il soggetto principale dei suoi scatti. Insolite muse, questi cani hanno fornito a Wegman l’ispirazione per ripercorrere tendenze di moda, movimenti della storia dell’arte e interpretare con ironia tipi umani: dal dandy alla modella, dall’astronauta alla casalinga”. Una cifra espressiva che si caratterizza per una sorprendente poliedricità, con trovate geniali e folgoranti. Passeggiando nelle sale espositive del MASI ci si ritrova così sorpresi ad ogni passo, ad ogni nuovo scatto e l’ironia – sottile e raffinata – prende forma e sostanza nei vari lavori. Ci si ritrova a ridere, anche di gusto, perché le sorprese, davvero, non mancano.
Le critiche a Wegman
Ma le opere di Wegman suscitano in qualche amante degli animali più di una perplessità: si tratta – per qualcuno – di una inaccettabile prevaricazione, di un modo pretestuoso di fare arte poiché il cane è reificato e utilizzato a proprio piacimento, ridicolizzato ad indossare abiti umani. Saremmo pertanto allora in presenza di un gratuito processo di umanizzazione. Già, l’umanizzazione o, se preferite, l’antropomorfizzazione quale peccato originale, quale prospettiva distorcente e squalificante dell’animale stesso. Del resto questo è il dogma professato da qualunque etologo e da ogni buon educatore cinofilo. Ma è veramente così? Wegman bypassa in modo così sfrontato la personalità dei suoi cani per sottometterli all’interno di una logica che desertifica la loro identità? Oppure l’artista ci sta portando a riflettere su un altro piano interpretativo?
Una lettura controintuitiva dell’opera di Wegman
In fondo l’arte, quando è nuova e quando si muove all’interno di nuovi paradigmi, suscita spesso reazioni contrastanti e non sempre la lettura intuitiva funziona. E a proposito di nuove rappresentazioni del pluriverso animale, non possiamo non citare altri due artisti che al teriomorfismo hanno dedicato gran parte delle loro lavoro: Daniel Lee e Karin Andersen. Pur muovendosi all’interno di stili espressivi diversi e, per vari aspetti, molto lontani da Wegman, anche nelle loro opere si può venir travolti da un senso di estranietà: gli ibridi, le promiscuità identitarie che esprimono nelle loro raffigurazioni non sono intuitivamente facili da comprendere. Anzi, a volte suscitano un senso di repulsione, di ostilità, come se quelle raffigurazioni rappresentassero un oltraggio alle categorie cognitive e percettive dei predicati “uomo” e “animale”.
Ma ad essere espressa, in queste opere, non è la prevaricazione, l’annullamento delle peculiarità e nemmeno una mancanza di riconoscimento di qualità specie-specifiche: in questi artisti ad essere inscenata è la sfida alla forza gravitazionale implicita nei modelli e nelle categorie verso cui siamo inevitabilmente attratti. L’uomo è uomo, l’animale è animale.
Wegman gioca con coraggio la provocazione a questo ordine delle cose, alla ius naturalis, giostrando sul filo sottile dell’identità ibrida, del promiscuo, accettando con onestà il rischio della critica.
Wegman e il superamento della dicotomia uomo-animale
L’artista americano si destreggia con disinvoltura all’interno della dicotomia uomo-animale, superandola, mettendola in discussione e anche accettandone i paradossi. Wegman, con le sue fotografie non vuole prevaricare il cane e le sue specificità di specie, ma al contrario tenta di mostrare come la sua stessa identità si alimenta di promiscue ibridazioni relazionali con l’umano. Il cane ha una forte identità umana perché il suo stesso etogramma si realizza nell’ecosistema umano. E nel rappresentare questo Wegman accetta anche che l’uomo (o meglio, la sua cultura, la sua identità) deve molto di quello che è alla relazione con con i cani. Le prove, a livello scientifico e zooantropologico, sono ormai tutte dalla sua parte.
La critica va quindi fatta slittare dalla rappresentazione grafica al paradigma all’interno del quale il nostro pensiero si muove. Ecco perché i rimandi storici e sociologici si inseguono nella mostra esposta al LAC, i Weimaraner si trasformano in cani da ricerca di effluvii mnemonici, diventano guide spazio-temporali portandoci negli angoli della nostra stessa identità, materializzando l’essenza e al tempo le periferie remote di chi noi siamo. Dando forma canina a queste parti e a questa sostanza di noi, Wegman sostiene l’ipotesi forte e chiara che il cane (per riprendere il titolo della mostra stessa) è un “essere umano”. È umano perché si riferisce a noi. Proietta il suo etogramma nell’antrosfera, si concerta, si allinea all’alterità umana. E al tempo stesso noi, “esseri umani” siamo fatti di carne cognitiva promiscua, dove il nostro patrimonio culturale racconta del debito che abbiamo nei confronti delle alterità. Ecco perché l’habitus umano è indossato dal cane. È una forma di restituzione, di effetto transitivo più che auto-riflessivo. È il nostro modo di essere ad essere raccontato. La cultura è un’ipoteca, un atto di gratitudine.
Assolutamente geniali, in questo senso, le opere On base (2007) e Perhaps Religious (2004), che esprimono intuizioni folgoranti e al tempo stesso propongono una critica sottilissima e inequivocabile ai modelli, alle geometrie, ai significanti dell’antropocentrismo che professa l’autonomia umana.
Una visita al MASI è quasi d’obbligo di questi tempi per ogni amante dei cani. Per capire chi sono loro e chi siamo noi. E per capirlo con il sorriso sulle labbra.
In occasione dell’esposizione fotografica, il 21 novembre il MASI, in collaborazione con LAC edu e con l’associazione Orion (un’ente attivo da vent’anni nella promozione di progetti di zooantropologia) propone l’evento Da William Wegman alla zooantropologia. Incontro con Nicola Gianini, aperto a tutti con Nicola Gianini, durante il quale si proverà a prendere spunto dalla mostra Being Human per approfondire la prospettiva dell’artista e cercando un inedito dialogo tra arte e scienza.
Immagine di copertina: Daniel Dorsa per Artsy
L’autore
Nicola Gianini
Si occupa di zooantropologia con l’Associazione Orion promuovendo progetti didattici e di analisi culturale in riferimento al valore referenziale della relazione con le alterità animali.
Intrecciando le esperienze zooantropologiche a quelle nell’ambito educativo con adolescenti problematici, è impegnato in un progetto teso a delineare i tratti di una pedagogia etologica, che consideri le nostre dotazioni di specie come vettori su cui agire nei processi riabilitativi.
È autore di Dal singolo al gruppo, Storie di ghiaccio, Un cane per maestro pubblicati presso le Edizioni Fontana [Nicola Gianini – Pagina Facebook]