
di Roberto Marchesini
Il 20 giugno 2018, all’età di 46 anni, muore Koko, la gorilla nota per le sua straordinarie doti empatiche e comunicative.
Koko era nata nel 1971 allo zoo di San Francisco e, insieme a Kanzi, rimane forse la rappresentante più famosa di quell’ambizioso campo della ricerca nato per sapere se uomo e scimmie antropomorfe possano comunicare.
Koko conosceva un migliaio di segni del linguaggio ASL (American Sign Language) e posedeva un’alta comprensione dell’inglese parlato. Grazie ai suoi talenti, la sua tutrice, Francine Patterson, e la fondazione da lei creata, The Gorilla Foundation, riuscirono ad attirare l’attenzione del pubblico sulla situazione di rischio che stanno vivendo i gorilla in tutto il mondo, intervenendo attivamente nei progetti di conservazione di questi animali. Koko apparteneva alla specie del gorilla di pianura occidentale (Gorilla gorilla gorilla), una deelle due sottospecie di gorilla occidentali (Gorilla gorilla), le quali, benché protette sulla carta, rimangono tuttavia alla mercè dei bracconieri e vittime della distruzione sisrtematica dei loro habitat.
Koko diventò anche il simbolo della colmunicazione interspecifica. Patterson ha mantenuto con lei una stretta e intima relazione per tutta la durata della vita di Koko, continuando a dialogare con lei e ad annotare comportamenti e osservzioni, preparando personalmente i pasti per la gorilla, considerando, tuttavia, che la parte relativa alle cure basilari di Koko sono state definite deficitarie o non appropriate da parte dei dipendenti della fondazione, che hanno sporto denuncia anche in riferimento alla bizzarria della richiesta di esporre il torace nudo di fronte a Koko per metterla a suo agio come segnale per stabilire fiducia.
In una intervista, Patterson la descrive come una giocherellona a cui piace divertirsi, dalla personalità forte e volitiva e con un grande senso dell’umorismo. Nessun dubbio che la relazione fra Koko e Patterson fu unica nel suo genere, le loro conversazioni incantano sinceramente, e tuttavia oggi i progetti di questo tipo faticano a mantenere la loro attrattiva
Nel bene o nel male, la comunità scientifica prevede e pretende un certo iter di verifica dei dati rilevati, e questo, nel caso di Koko, non è mai stato fatto in maniera sistematica. Studi accurati nuovi non esistono, e quelli vecchi hanno perso valore.
Dagli inizi del XX secolo a oggi, sono dozzine gli studi che hanno coinvolto cuccioli di antropomorfe allevati in famiglie umane con l’intento di insegnare loro la lingua dell’uomo.
Come Koko, decine di giovani scimmie sono state portate all’interno di case o allevate in laboratori attrezzati per sembrare abitazioni umane: qui, gli uomini e le altre scimmie potevano vivere insieme, giocare e imparare a comprendersi a vicenda.
I primi tentativi di comunicare con gli altri primati risalgono agli anni ’30.
Partendo dal fatto che gli scimpanzé sono i nostri parenti più prossimi sulla scala evolutiva, una parte della comunità scientifica inizi a chiedersi se avessero anche un linguaggio. I ricercatori ipotizzavano che la cultura avesse qualcosa a che vedere con l’apprendimento del linguaggio, pertanto, allevandole come esseri umani, le scimmie avrebbero forse appreso anche il linguaggio umano.
Gua
E fu così che lo psicologo Winthrop Kellog adottò Gua, uno scimpanzé di sette mesi e mezzo. Il figlio dello studioso, che allora aveva 10 mesi, venne intenzionalmente allevato insieme a Gua. Questa modalità di ricerca attirò parecchie critiche, da una parte, per l’avere strappato un giovane scimpanzé alla madre e, dall’altra, per l’idea di allevare fianco a fianco un cucciolo d’uomo e uno di scimpanzé. All’età di un anno, Gua rispondeva alle richieste verbali ma, con grande disappunto dei suoi genitori umani, non parlava. L’esperimento fu abbandonato dopo nove mesi.
Viki
Tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 fu la volta di Viki, dalla Florida, adottata da Keith e Catherine Hayes che, di nuovo, la allevarono come un bambino, arrivando a farle pronunciare, con enormi difficoltà, suoni prossimi alle parole “mama”, “papa”, “cup” e “up”: con l’intenzione di facilitarla nella pronuncia, Catherine le modellava le labbra con le dita per portare Viki ad emettere i suoni richiesti.
Grazie a successive ricerche (ad esempio lo studio di Tecumseh Fich et al., 2016), oggi sappiamo che i primati non umani possiedono organi fonatori simili a quelli umano, sono dunque anatomicamente in grado di emettere i nostri stessi suoni. In questo senso, uno studio in atto è quello sui Gelada di Etiopia.
Washoe
La prima antropomorfa sottoposta a questo tipo di insegnamento fu la scimpanzé Washoe, dal Nevada. Allo scopo, Allen e Beatrix Gardner sfruttarono la naturale mimica degli scimpanzé. Washoe iniziò il suo apprendimento nel 1966. Nata libera, era stata catturata per essere venduta agli Stati Uniti. I coniugi Gardner la adottarono con l’intenzione di allevarla come una bambina: Washoe aveva il suo spazzolino da denti, i suoi libri, i suoi vestiti e andava in gita in automobile con i suoi genitori umani. Arrivò ad imparare 250 segni, per poi passare più tardi nelle mani degli psicologi Roger e Deborah Fouts. Alla sua morte, avvenuta nel 2007, Washoe conosceva 250 segni, che riusciva a combinare per formulare strutture sintattiche di senso compiuto, del tipo “dammi caramella”, “io te usciamo fretta”. Loulis, suo figlio, imparò il linguaggio dei segni per imitazione della madre, primo caso noto di questo tipo.
Il progetto dei Gardner si dipanava lungo gli anni ’60, cioè il periodo in cui iniziava il processo di distruzione su scala industriale delle foreste pluviali tropicali e degli habitat di quegli animali a cui si stava tentando di insegnare l’inglese a gesti.
La storia di Washoe è narrata nel libro di Roger Fouts, Next of Kin: My Conversations with Chimpanzees.
Nella decade successiva ci fu un’esplosione di progetti di ricerca che prevedevano cuccioli di scimmia allevati come cuccioli d’uomo. I ricercatori davano loro nomi umani: Sarah, Lucy, Sherman, Austin. E poi venne Nim.
Nim
Il successo di Washoe, portò lo psicologo Herbert Terrace, dell’Università della Columbia, a ripetere l’esperimento con un altro scimpanzé, Nim Chimpsky, storpiatura del nome di Noam Chomsky, che sosteneva che il linguaggio fosse prerogativa innata ed esclusiva dell’essere umano. La vita di Nim è probabilmente una delle vicende più tristi che la fantasia umana possa immaginare.
Anche Nim fu scresciuto come un essere umano, per poi essere tolto alla famiglia adottiva e spostato nel campus della Columbia. Terminata la fase di ricerca, Terrace concluse che Nim non aveva mai veramente imparato il linguaggio che gli era stato insegnato, ma si limitava semplicemente a imitare per ottenere ricompense. I Gardner obietteranno sempre contro le conclusioni di Terrace, sostenendo che questi non si fosse mai preoccupato di fornire a Nim gli strumenti necessari ad un apprendimento sereno, adottando un metodo di training che, fra le altre grossolanità evidenziate anche da Roger Fouts, prevedeva un turn over continuo di assistenti che impediva la costruzione di relazioni solide con Nim necessarie a fornirgli quella struttura sociale di cui necessitava.
Al termine dei lavori di Terrace, Nim finì nell’Istituto per lo Studio dei Primati in Oklahoma, dove ebbe enormi difficoltà ad adattarsi, dato che fino a quel momento, i primi dieci anni della sua vita, aveva vissuto come una persona in famiglia. Un anno dopo, Terrace si recò all’Istituto per dare un’occhiata a Nim, e quest’ultimo, appena vide l’uomo, balzò verso di lui visibilmente rallegrato. Da quel momento in poi, dopo la partenza di Terrace, Nim cadde in uno stato depressivo da cui non si risollevò più. Nonostante il suo stato di prostrazione, riuscì ad instaurare una relazione con vari dipendenti dell’Istituto e ad imparare altri segni.
Più tardi, l’Istituto vendette Nim al Laboratory for Experimental Medicine and Surgery in Primates (LEMSIP), un laboratorio gestito dall’Università di New York che sperimenta farmaci sugli animali. Il ruolo di Nim diventò quello di subire iniezioni di sostanze varie dopo essere stato pesantemente sedato. Durante le sessioni con Nim, gli sperimentatori affermano di averlo visto riprodurre i gesti che significano “abbraccio” e “gioco”.
Nei vari tentativi di salvarlo dal suo inferno, alla fine Nim fu acquistato dal Fund for Animals, in Texas: nella nuova dimora, il suo stato fisico migliorò, ma Nim preferiva vivere isolato e lontano da tutti per la maggior parte del tempo; con il passare del tempo, diventò irritabile, talvolta esibendo comportamenti distruttivi. Trascorse così altri dieci anni, allorché altri scimpanzé, furono introdotti nel suo recinto, e a quel punto il suo stato psicofisico migliorò leggermente. Per tutto il resto della sua penosa vita, Nim continuò a comunicare con il linguaggio dei segni ogniqualvolta uno dei dipendenti dell’Istituto in cui aveva vissuto in passato si recava a fargli visita.
Nim è morto nel 2000 per infarto miocardico. Aveva 26 anni.
La sua storia è narrata nel libro di Eugene Linden, Silent Partners: The Legacy of the Ape Language Experiments e nel documentario Project Nim.
Chantek
Nel 1978, l’antropologa Lyn Miles dell’Università del Tennessee, a Chattanooga, inizia ad insegnare il linguaggio dei segni per la prima volta ad un orango, Chantek. In otto anni di progetto di ricerca, Chantek ha imparato 150 segni. Tra le varie annotazioni fatte in sede di esperimento, vi era la capacità da parte di Chantek di riconoscere se stesso riflesso in uno specchio.
Lyn Miles lotta da sempre per il riconoscimento degli animali come “persone di specie non umana” e ha sempre sottolineato l’importanza che la cultura ha avuto nell’apprendimento, uso e creazione di segni gestuali da parte di Chantek. Per la ricercatrice, quello di Chantek è un linguaggio specifico, che lei chiama Linguaggio dei segni della specie orango.
Chantek ha dimostrato di avere un pensiero simbolico, di dare un significato ai segni e non di riprodurli solo per mera imitazione, ha dato prova di capacità di code-switching (abilità di passare da una lingua all’altra tipica dei poliglotti), di possedere una meta-comunicazione, di saper raccontare bugie e conoscere quindi il significato di inganno, conosce l’imitazione, l’autoconsapevolezza, possiede numerose abilità cognitive e una teoria della mente. Chantek ha appreso la tecnologia preistorica di costruire utensili con le pietre, di dipingere, di costruire manufatti e ha imparato ad utilizzare strumenti moderni come cacciaviti, pinze e tenaglie. Ha appreso il significato del denaro e ha imparato a fabbricare oggetti di bigiotteria segnando il bivio cognitivo con la cultura di Homo sapiens.
Nato nel 1977, Chantek muore per malattia nel 2017 in un recinto dello Zoo di Atlanta, in cui viveva con altri oranghi. Lyn Miles sta attualmente preparando un volume dal titolo Chantek: The First Orangutan Person.
Kanzi
Un’atra star delle ricerche sul linguaggio è il bonobo Kanzi, che per comunicare non utilizza il linguaggio dei segni, ma usa combinazioni di lessigrammi (simboli astratti) tramite una tastiera collegata a un computer. Nei primi anni ’80, la psicologa Sue Savage-Rumbaugh iniziò ad insegnare il lessigrammi a Matata, la madre di Kanzi; alla fine, emerse che anche Kanzi li aveva appresi, per imitazione e in maniera molto più accurata della madre, e lo studio proseguì su di lui. Kanzi comprende l’inglese parlato e conosce circa 400 simboli. Secondo i ricercatori del Great Ape Trust dell’Iowa, dove risiede, per utilizzare i lessigrammi Kanzi segue regole grammaticali e sintattiche. ha coniato parole nuove combinando i simboli in modo autonomo e originale, si riferisce agli eventi mettendoli in un ordine narrativo di passato e presente ed è in grado di capire il concetto di opinione altrui, tutte capacità solitamente ritenute umane. È inoltre un abile costruttore di strumenti in pietra.
Sin dagli albori di questa tipologia di ricerca, la critica suscitata è stata l’interpretazione selettiva da parte dei ricercatori: quanto c’è di fattuale nelle osservazioni e quanto invece è proiezione di chi osserva? Gli altri animali percepiscono le emozioni degli umani intorno a loro e i loro comportamenti potrebbero essere le risposte alle emozioni che sentono da parte dei loro tutori, come nel caso di Koko alla notizia che il suo gattino preferito era morto e non sarebbe più tornato. I ricercatori sono stati talvolta tacciati di approccio poco scientifico nell’affrettarsi a dare immediatamente per buona una unica interpretazione senza porsi il dubbio del confronto. I cinici fino in fondo sostengono che l’interpretazione buona è, stranamente, sempre quella che porta a titoloni su siti web e giornali e porta denaro sonante alle casse delle fondazione e, conseguentemente, ai progetti di ricerca, che vivono con le donazioni dei privati, il cui cuore tenero ha spesso più bisogno di conferme e conforto che di metodo scientifico.
Nel caso particolare di Koko, una critica che Terrace ha sempre fatto a Patterson è stata quella di indurre in Koko le risposte giuste quando la donna le poneva le domande, ma Patterson ha sempre difeso i suoi metodi di ricerca ribadendo come Koko fosse immersa in un ambiente bilingue al 100%, del tutto analogo a quello di un bambino in crescita.
La diatriba è poi finita nel nulla.
Altre critiche mosse ai progetti che includevano Koko e Kanzi riguardavano la possibilità di sovrastimare le abilità dei due animali da parte dei loro tutori, attribuendo loro determinate abilità o emozioni solo per il fatto di vivere a stretto contatto quotidianamente.
Per esempio, Sapolsky asseriva che Patterson spontaneamente correggeva i segni sbagliati di Koko: quando la ricercatrice le chiedeva il nome di una cosa e Koko sbagliava il segno, la donna reagiva dicendo “Oh, smetti di scherzare”, le mostrava un ulteriore oggetto, Koko sbagliava di nuovo e Patterson reagiva dicendo “Oh, gorilla mattacchiona”.
Insomma, l’aura di polemica che da sempre avvolge gli studi sul linguaggio delle antropomorfe ha finito per scoraggiare i ricercatori. I progetti sono stati sempre più trascurati man mano che le persone incaricate perdevano interesse nel difenderli, si stancavano di fare da genitori a tempo pieno degli animali coinvolti o non riuscivano più a racimolare le sempre più esigue donazioni necessarie alla sopravvivenza delle iniziative.
E ogni volta che una ricerca termina, si ripropone il problema di cosa fare dell’animale coinvolto. A seconda di specie e genere, la durata di vita media delle antropomorfe varia dai 30 ai 50 anni, ma in cattività possono vivere anche più a lungo. La loro esistenza post-ricerca trascorre di solito nell’oblio del disinteresse. Vengono sballottate tra collezioni private, zoo e, se hanno fortuna, santuari.
Le strutture che accolgono le scimmie devono avere il benestare del dipartimento statunitense dell’agricoltura sia nel caso si limitino ad ospitarle sia nel caso in cui le utilizzino per ricerche sperimentali. Tuttavia, queste strutture sono in larga parte finanziate da donazioni private e le agenzie governative controllano raramente le pratiche quotidiane che avvengono al loro interno.
Il tipo di educazione ricevuto rende molto difficile l’adattamento alla vita in cattività per le scimmie allevate come esseri umani, e la convivenza con i conspecifici è complicata. Chantek cadde in depressione quando venne separato dalla sua tutrice, Nim divenne solitario e irritabile. Talvolta, il loro triste destino porta ad una tragica morte prematura: Gua, abbandonata alla fine dello studio e mandata in un laboratorio, morì di polmonite all’età di tre anni; Nim morì di infarto a 26 anni; Michael, il primo compagno di Koko, morì per una patologia cardiaca a 27 anni.
Attualmente, i progetti che continuano ad essere portati avanti sono due, quello del Gorilla Foundation che, dopo la morte di Koko, continua con il gorilla maschio Ndume, e quello del Great Ape Trust, che ospita Kanzi e altri bonobo.
Si tratta di un mondo, sì affascinante, in cui non mancano tuttavia le ombre.
Le varie denunce, cause legali e lettere al direttore che sono state rese pubbliche generalmente da ex dipendenti delle fondazioni parlano di animali accuditi alla meglio, nutriti troppo e malamente e seguiti dai veterinari in modo grossolano e deficitario. Come se non bastasse, accade sovente che la relazione ricercatore-antropomorfa prenda una piega morbosa e ingestibile per chi lavora nei team di ricerca.
Se grazie a questi progetti, il cui futuro rimane comunque incerto, abbiamo visto come le antropomorfe siano in grado di associare simboli a oggetti del mondo circostante e di usare tale conoscenza per comunicare con le persone, mostrando grandi capacità empatiche e cognitive interspecifiche, un altro dato rilevante che emerge è quanto bizzarri, cocciuti, eccentrici e ingestibili possano diventare gli esseri umani in determinate circostanze.
Immagine di copertina: Francine Patterson e Koko all’Università di Stanford, California, 1972. Credit: Keystone Pictures USA/Zuma
Fonti:
https://www.smithsonianmag.com/science-nature/six-talking-apes-48085302/
https://www.savacations.com/monkeys-amazon-rainforest/
https://www.livescience.com/27692-deforestation.html
https://en.wikipedia.org/wiki/Nim_Chimpsky#cite_ref-11
https://www.jstor.org/stable/3143327?seq=1#page_scan_tab_contents
http://www.slate.com/articles/health_and_science/science/2014/08/koko_kanzi_and_ape_language_research_criticism_of_working_conditions_and.html?via=gdpr-consent