
di Nicola Gianini
Ginger è seduta con gli occhi socchiusi ai lati di un bosco. Alza leggermente il muso alla ricerca di odori che la possano aiutare nell’imminente ricerca. O più semplicemente si pregusta l’attività che sta per cominciare. Qualche ragazzo si chiede se andrà tutto bene, se non ci saranno imprevisti. Qualcun altro si preoccupa “Non sarà troppo impegnativo?”. L’attesa è quasi infinita, ma Robel – questa volta tocca a lui fare il conduttore di Ginger – è tranquillo “Ma cosa dite? Andrà tutto bene”. A rompere l’attesa, durata più di tre ore, finalmente arriva tramite una radiolina il comando “Potete partire!”. Ginger capisce che l’attesa è terminata. Apre per bene gli occhi, guarda un’ultima volta negli occhi Robel e attende concentratissima il vialibera: “Search, Ginger, search!”. E via, la lunghina si sfilaccia per tutti i suoi sette metri di lunghezza; giusto il tempo di capire da dove inizia la traccia e il ritmo è subito serrato, deciso, sicuro.
Robel segue con leggerezza e determinazione. Il passo è silenzioso, il suo sguardo completamente rivolto a Ginger e a quello che sta facendo. “Di solito”, avrà pensato, “le tracce le fanno iniziare in sentieri semplici o passando per boschi non troppo impegnativi”. Ma questa volta è diverso: appena trovata la pista buona dietro la capanna, Ginger gira con convinzione nella direzione di un vecchio sentiero in cui i contadini, a inizio del secolo scorso, portavano le capre. I bovini, da quella valle aspra e pericolosa, non osavano farli passare: troppo rischioso, la valle è davvero impervia. Ginger guida Robel in quel vecchio percorso mozzafiato dove sulla destra, improvvisamente, si apre un burrone che fa mancare il fiato solo a guardarlo. Ma questa volta, forse, è meglio così, non c’è tempo per queste cose: paure e vertigini restano fuori dal gioco, c’è una traccia da portare a termine e siamo solo nei primi 300 metri di strada. Nessuno, a parte i fuggitivi, sanno che questa volta è davvero dura. Passata la valle in men che non si dica, Ginger guida Robel nei boschi dove non c’è più alcun sentiero, lo guida convinta a passo spedito, fino ad aggirare tutta la montagna e fino a cambiare vallata, dall’aspra valle Leventina si arriva nella soliva Valle di Blenio: si apre lo scenario spettacolare delle alpi grigionesi, con le montagne più alte della regione. Uno spettacolo degno delle più belle cartoline. Ma questa volta il vero spettacolo lo stanno offrendo Ginger e Robel che continuano a passo spedito. A un certo punto, dopo tre quarti d’ora di cammino, la traccia prende una direzione inattesa: si vira a sinistra, ad angolo retto, e si sale senza curvature verso la vetta: sono 500 metri di dislivello da macinare in poco tempo. Ginger tiene la testa bassa, a discriminare odori su odori, i muscoli del treno posteriore sono caldi e scolpiti come le venature delle rocce circostanti. Robel la segue con un passo felpato che mi chiedo come faccia a tenere quei ritmi. Il resto dei ricercatori (io e altri due ragazzi) teniamo il passo con il cuore in gola. Troviamo delle vacche scozzesi con dei vitellini e la cosa non ci rassicura. Ginger alza un attimo lo sguardo come dire “il predatore sono io!” e le fa desistere nel loro intento di allontanarci. Adrenalina allo stato puro! Giunti sulla vetta Ginger procede senza esitazioni verso nord seguendo il sentiero sulla cresta della montagna, dove il panorama è davvero mozzafiato: Leventina e Valle di Blenio abbracciate da pochi metri di roccia. Il team di ricerca risale spedito, puntuale come un treno svizzero, supera degli ignari turisti tedeschi che passeggiano gustandosi l’ambiente alpino e ci guardano stupiti. Per un attimo penso “Beati loro!”. Ma Ginger risucchia subito le divagazioni. L’attenzione è tutta sulla terra, sui sassi, sulla polvere: lo sguardo è concentratissimo e inchiodato a terra.
Utilizzo di un drone per seguire Ginger in una traccia sui Monti di Sobrio (Valle Leventina – Ticino).
L’attività è stata ripresa durante il Campo Orion 2017
Si va avanti sulla cresta per un paio di chilometri, si sale ancora fino al Pizzo Matro a quasi 2200 metri di altezza: non è solo una cosa che dicono nei documentari, ma quell’altezza l’aria è davvero più leggera, i polmoni si riempono più a fatica. Ma niente ferma i ricercatori fino a che sento Robel borbottare “Ma questi sono matti!!!!”: Ginger vira bruscamente a sinistra (non a caso le brutte notizie si dice che siano… “sinistre”) e scende praticamente in picchiata seguendo la rientranza di un vallone. Sono altri 300 metri di dislivello percorsi gambe in spalla, con i muscoli duri come sassi. Poi la strada spiana e si passa vicino a un laghetto dove Ginger si ferma a bere giusto quell’attimo e poi via, via di nuovo, per boschi, dentro e fuori dai sentieri, in un saliescendi estenuante. Alla fine, dopo poco più di due ore di ricerca, 8 chilometri di tracciato e 1200 metri di dislivello totale, Ginger e Robel arrivano come falchi in picchiata sui fuggitivi. Rispetto alla loro fuga i nostri due atleti ci hanno impiegato un’ora e mezza in meno a completare il tragitto.
Una vera e propria avventura. Ma tutto per gioco. I protagonisti di questa traccia sono i partecipanti ai campi Orion, che si svolgono ormai da diciassette anni sui monti di un paesino delle Alpi Svizzere. Un progetto di zooantropologia didattica che è nato nel 2002. Un progetto che vuole mettere i partecipanti nella condizione di sperimentare in modo forte, senza compromessi, le potenzialità cognitive e fisiche dei cani. Questa traccia ne è un esempio, ma vengono proposte attività e giochi in cui i ragazzi possono confrontare il loro modo di guardare delle situazioni (ad esempio identificare una pallina da tennis in mezzo ad un pascolo) con il modo che adotta un cane. Si svolgono giochi di ricerca oggetti, finte ricerche dispersi o, come nel caso descritto sopra, il classico “guardie e ladri” dove a dar mano forte alle guardie c’è Ginger. Queste attività vengono anche svolte al buio, dove la foresta abitata da qualche ungulato e più di recente anche da qualche cinghiale, può fare veramente tremare le gambe ai più fifoni. Eppure, grazie a Ginger, quel bosco così inaccessibile diventa uno spazio in cui vivere esperienze emozionanti e rigeneranti.
Il cane, in questa rilettura dei dettami zooantropologici, si fa maestro, suggerisce, ci mette ai margini, ci fa capire quanto il nostro sguardo sia prospettico e non assoluto. Depotenzia quella nostra presunzione secondo cui noi saremmo gli animali più intelligenti. In quella traccia così dura e impegnativa Ginger ha dato più di una risposta ai ragazzi a tal proposito: non c’è nessun istinto che la guida nella sua ricerca. C’è semmai la capacità di filtrare le centinai di odori che percepisce per tradurli in una lettura soggettiva e cognitiva utile al raggiungimento dell’obiettivo che lei in primis ha ben chiaro in testa. Io non ho dubbi: il cane non solo è cognitivo ma attività come queste dimostrano che è anche capace di coscienza.
Ma il cane ti fa anche capire che quel percorso, quella strada è fattibile solo in relazione a lui: ti educa al confronto, ad accettare che le scelte non sono sempre nelle tue mani. E tanto più sai valorizzare il tuo interlocutore, tante più possibilità di raggiungere l’obiettivo.
E tutto questo crea un coinvolgimento senza eguali: Robel, lo confesso – tanto non mi sente -, non è uno che ama particolarmente camminare. Eppure in questa attività era pienamente coinvolto tanto che la sua richiesta è stata “Quando lo rifacciamo?”.
L’animale, quando esprime pienamente le sue potenzialità, coinvolge, entusiasma, sorprende, apre mondi. Non ci sono più limiti, o meglio non ci sono più i limiti che ci poniamo attraverso i nostri pregiudizi e le nostre nevrosi.
Capita sovente, infatti, che gli stessi ragazzi mettano nello zaino qualche libro che trovano in capanna: che sia una raccolta di bestiari medioevali o altri testi, poco importa. La loro richiesta è di confrontare quello che abbiamo svolto in pratica con Ginger con la nostra storia filosofica. E si chiedono, perplessi e sorpresi “Ma perché continuiamo a pensare che gli animali sono solo istinto e li pensiamo come inferiori?”.
E si immergono appassionati, con le gambe fumanti dalla fatica, il fiato corto e il sudore che gronda come pioggia primaverile, nella lettura del De hominis dignitatae di Pico della Mirandola.
Già, perché i cani non ci dicono solo chi sono loro. Ma chi siamo noi.
Immagine di copertina: Campi Orion, Photo Gallery
L’autore
Nicola Gianini
Si occupa di zooantropologia con l’Associazione Orion promuovendo progetti didattici e di analisi culturale in riferimento al valore referenziale della relazione con le alterità animali.
Intrecciando le esperienze zooantropologiche a quelle nell’ambito educativo con adolescenti problematici, è impegnato in un progetto teso a delineare i tratti di una pedagogia etologica, che consideri le nostre dotazioni di specie come vettori su cui agire nei processi riabilitativi.
È autore di Dal singolo al gruppo, Storie di ghiaccio, Un cane per maestro pubblicati presso le Edizioni Fontana [Nicola Gianini – Pagina Facebook]