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Affetti, socialità e aggregazione: una vita da pecora

Una vita da pecora

di Roberto Marchesini

“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.” Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, 1943

Per usare l’espressione dello scrittore Ermanno Giudici, quello che rappresenta oggi il nostro rapporto con gli altri animali è sicuramente un patto tradito.

Le caratteristiche che furono favorevoli alla domesticazione e alla vita di prossimità con l’essere umano diventano in epoca moderna una nefasta mancanza di difesa da chi ha addomesticato animali con certe peculiarità e che oggi usa mansuetudine e docilità per compiere su di essi le nefandezze più fantasiose.

Che cosa sappiamo degli animali che mangiamo e di ciò che furono prima di diventare contenuto di un raffinato packaging del banco frigo?

Suo malgrado, quella pasqualina è la settimana della pecora, pertanto ritengo doveroso dedicare un articolo alla guest star del periodo di equinozi, pleniluni e ore legali.

Il genere Ovis e il genere Capra appartengono entrambi al ramo dei Caprini e, risalendo nella tassonomia, alla famiglia dei Bovidae.
Pur essendo molto simili, i miti, le leggende e  le abitudini antropiche hanno riservato destini diversi ai due generi, favorendo il diffondersi dell’allevamento della pecora a discapito di quello della capra, quest’ultima considerata per vari motivi più antipatica, fino a diventare animale diabolico.
Nel processo di sicretismo pagano-cristiano, le icone politeiste della natura e naturalità finirono nel calderone della diabolicità monoteista e il greco Pan, divinità silvana protettrice di campagna, selve e pascoli, metà uomo e metà capro, si ritrovò con il titolo di re degli inferi e il capro diventò la bestia di Satana. La pecora invece andrà a rappresentare la persona buona e onesta che si lascia guidare dal buon pastore, ovvero l’autorità.

In più, la capra predilige zone montagnose e si ciba di erbe, di alberi e arbusti: le sue abitudini alimentari la portano ad assumere spesso la posizione di bipedismo innalzandosi sulle zampe posteriori e da questo comportamento, facilmente osservabile da chiunque, forse deriva l’immaginazione, fin dall’antichità, di divinità metà umane e metà caprine. L’attitudine al bipedismo può essere osservata anche nei combattimenti ritualizzati fra maschi, che non prendono la rincorsa come gli arieti per arrivare allo scontro testa a testa, ma si impennano sulle zampe posteriori per poi sferrare colpi con le corna dall’alto verso il basso (Richard C. Francis, Addomesticati, Bollati Boringhieri, 2016).

Dagli otto ai diecimila anni fa, la domesticazione della pecora inizia per garantire una riserva di carne regolare a partire da popolazioni selvatiche (probabilmente mufloni) controllate dall’uomo: la gestione consiste nell’uccisione selettiva dei maschi, la quale, non operandosi sulla base della vigoria fisica degli stessi ma su criteri stabiliti dall’uomo, ne inizia lo stravolgimento genetico.
L’allevamento della pecora per la produzione di lana inizierà millenni più tardi, definendo la specie come animale domestico versatile per definizione.

Le pecore amano vivere in ampi gruppi sociali, caratteristica che facilita parecchio il movimento del gregge, gli spostamenti lungo i pascoli e l’uscita e il rientro dagli ovili; sono erbivore e possono adattarsi a una grande varietà di ambienti. Le scarse interrelazioni fra adulti si intensificano ovviamente nel periodo di accoppiamento: l’attività riproduttiva è stagionale, iniziando in estate e terminando in inverno, con un picco di estri in autunno, quando le ore di luce diminuiscono e le temperature rinfrescano.

La femmina fertile entra in estro circa ogni venti giorni e la durata del calore è di circa due giorni, dipendendo questi periodi dalla razza. La gestazione ha una durata di cinque mesi. Alla nascita, il neonato è in grado di reggersi in piedi dopo pochi minuti dal parto e immediatamente si avvicina ai capezzoli della madre per succhiare il colostro, ricco di anticorpi, che nel giro di 48 ore avrà già assunto la consistenza del latte normale. Per questo motivo, la zootecnia considera valida la separazione dell’agnello dalla madre all’età minima di due giorni, quando cioè è terminato l’assorbimento anticorpale e diventa possibile nutrire il piccolo con il latte artificiale.

Come animale atto ad essere allevato, il tratto comportamentale più importante è la marcata socialità e la formazione di forti legami fra la madre e il piccolo.
Le pecore mostrano un vitale bisogno di rimanere con il loro gruppo, emettono intense vocalizzazioni e mostrano un forte stress quando separate dai loro compagni di gregge. La vita di gregge implica la conoscenza e la capacità di rispettare quelle regole che mantengano la stabilità del gruppo e aumentino la fitness di ciascun individuo. In condizioni di vita naturali, una popolazione di pecore contiene un largo range di individui che comprende femmine sessualmente mature, maschi e femmine adolescenti e agnelli; tale composizione fluttua e varia continuamente. I maschi adulti di solito raggiungono i gruppetti comprendenti le femmine durante la stagione dell’accoppiamento. In condizioni di cattività, è l’uomo a imporre l’ambiente sociale e gli animali vengono solitamente mantenuti in gruppi distinti per sesso e simili per età e taglia, con le eccezioni delle coppie madre-figlio (laddove venga permesso loro di vivere il periodo di svezzamento) e i gruppi misti di maschi e femmine ai fini dell’accoppiamento.

I ranghi sociali non sono così chiaramente espressi come in altri ruminanti, a meno che le pecore non sia costretti in spazi non idonei entrando così in competizione per le risorse. Tale precisazione sembra ovvia e superflua, ma certi dettagli vengono stranamente ignorati dai burocrati del benessere animale nell’industria.
In generale, mischiare gruppi di individui provenienti da greggi differenti o di specie differenti non incrementa comportamenti conflittuali e antagonisti, cosa che costituisce un grande vantaggio per il pastore, laddove le pecore vivano in libertà. È infatti pratica comune mischiare capre e pecore laddove si allevino entrambe e impiegare gli asini per il trasporto dei neonati ancora troppo deboli per muoversi alla velocità e sulle distanze del gregge: l’asino si muove insieme alle pecore trasportando gli agnelli all’interno di tasche appese ai suoi fianchi. In questo modo, madre e figlio continuano a sentire l’odore reciproco e il ricongiungimento dei due avviene senza traumi una volta che l’agnello viene rimesso a terra.
Separare la madre dal piccolo è pratica comune nell’allevamento delle pecore da latte.

Come con le altre specie da reddito, anche con la pecora si è tentato il processo di industrializzazione della produzione di latte, lana, pelle e carne, ma la sua etologia sopporta molto male le tecniche intensive di allevamento, con il risultato di moltiplicare le sofferenze inflitte agli animali dalle già di per sé aberranti pratiche di allevamento industriale.

In italia si allevano circa 6.808.000 capit (dati ISTAT) suddivisi in 5% al Nord, 22% al Centro, 21% al Sud e il 52% nelle Isole.
Negli allevamenti di pecore e capre da latte, l’età dei 22 giorni è quella considerata più produttiva per macellare agnelli e capretti, il tempo di assumere il latte dalla madre. Superato questo periodo, si si dice in gergo che l’animale “è passato”, perché da lì in poi inizia a brucare erba, cambiando la consistenza della sua carne al palato umano. In più, se non sono individui destinati alla riproduzione, si tratta di cuccioli che non servono a niente, se non a indurre le madri a continuare a produrre latte, per cui prima li si uccide e meno si spende in nutrimento inutile.
Se il piccolo è destinato alla riproduzione, il suo svezzamento avviene intorno ai 2-2,5 mesi di vita.
Ricordiamo qui che l’abomaso, ripieno di latte, di agnelli e capretti (ma anche quello di vitelli e suini) viene utilizzato per la formazione del caglio nella realizzazione di formaggi e altri derivati del latte.

Fin da piccolissimi, gli agnelli si mostrano molto socievoli con l’essere umano. Infatti la docilità è un’altra peculiarità delle pecore, a differenza delle capre che si mostrano più autonome e sbarazzine nei confronti dell’uomo, tratto che deriva forse dalla predilezione di habitat differenti: mentre le pecore amano le distese erbose aperte, le capre preferiscono altitudini più elevate e terreni rocciosi e questa differenza in esuberanza e prestanza fisica tra pecore e capre si ripercuote anche sul tipo di rapporto che si instaura con l’essere umano.

Come tutti i mammiferi, anche la pecora presenta forti motivazioni epimeletica ed et-epimeletica, con un evidente intenso comportamento di cura da parte della madre e di richiesta di cura da parte del piccolo, comportamento che crea fin da subito un legame molto forte tra madre e neonato.
Se i testi di zootecnia, con l’asetticità che li contraddistingue, consigliano di non togliere l’agnello alla madre prima delle sei settimane di età del piccolo, per evitare che una separazione precoce causi “un aumento significativo dei tempi di riposo e di inattività” da leggersi come “stato di panico e terrore”), le indagini condotte negli allevamenti di pecore da latte mostrano realtà diverse su cui non viene esercitato nessun controllo, se non rarissimamente, e non certo per verificare il well-being degli animali stabulati.
Allo stesso modo, quando si parla di “impatto deleterio dalla rottura del legame sociale pecora-agnello”, si intende ricordare che nella prima settimana di vita la crescita dei un agnello non allattato dalla madre è inferiore del 50% rispetto agli agnelli che rimangono nel loro gruppo sociale. Insomma, l’allevatore perde guadagno o, leggendola al contrario, se un agnello può fare l’agnello, cresce meglio perché è felice.

Fortunatamente per il benessere dell’informazione, le indagini di gruppi di attivisti condotte ogni anno nel periodo della mattanza pasquale mostrano la realtà fattuale, un poco più orrorifica del semplice aumento di letargia nell’agnello separato troppo presto dalla madre.
Si sottolinea che tali indagini riportano una realtà diffusa e non casi isolati e descrivono:

Animali stipati in spazi ristretti, senza ripari, in mezzo a rifiuti e rottami; pecore malate, lasciate per ore legate, allontanate dal gregge, senza alcuna cura veterinaria, in attesa della macellazione; agnelli troppo presto separati dalle loro madri, spesso affette da mastite e con le mammelle in necrosi: queste scene, documentate nell’investigazione, non sono che il preludio ad una fine tremendamente dolorosa, come dimostrano le immagini realizzate dagli attivisti. – Animal Equality

E sul trasporto degli agnelli:

Gli agnelli sono scaricati brutalmente dal camion, tirati per zampe e orecchie o strattonati con una corda. Una volta dentro al macello belano impauriti, ma la loro angoscia è destinata a continuare per parecchi minuti. – Essere Animali

A proposito degli agnelli destinati alle nostre tavole, la giornalista Macri Puricelli ha intitolato un suo articolo Se i bambini sapessero..:

“Ho pensato: ma questi bambini sanno che il giorno di Pasqua quel nuovo amico peloso se lo ritroveranno nel piatto? Loro sanno che quegli agnellini avranno poche settimane di vita?
Che verranno tolti a forza alle loro mamme? E che piangeranno, forte, di dolore e di terrore?”

Già. Se solo i bambini sapessero come vengono trattate le Lola e le Rosita di una martellante propaganda falsa e ipocrita che non dovrebbe esistere: non si tratta forse di pubblicità ingannevole?

Le pecore sono una specie preda e la loro unica forma di difesa è la fuga. In questo senso, per quanto riguarda le situazioni di paura, Roberto Marchesini spiega come plausibilmente soffrano più dell’essere umano in circostanze di terrore, perché in quanto prede hanno un sistema emotivo molto sensibile e sono più portate a spaventarsi rispetto agli umani.

Le dinamiche del gregge risultano evidenti in gruppi di quattro o più individui come evidenziato dalla volontà di seguire un leader o di fuggire all’unisono. Quando la fuga risulta impossibile, anche una femmina può caricare o minacciare tramite l’azione di pestare a terra con lo zoccolo. La separazione forzata di un individuo dal gregge provoca stress e panico. L’isolamento dalle altre pecore causa grave stress.

Per di più, non risulta vero nemmeno che le pecore seguano il pastore alla cieca.
Uno studio dell’Università di Cambridge ha dimostrato che le pecore possiedono una capacità di riconoscimento dei visi simile a quella umana.
Un precedente studio aveva già mostrato come le pecore riconoscessero i conspecifici e il loro conduttore umano, ma in questo nuovo studio si è valutata tale capacità usando fotografie, così da escludere altri parametri in gioco nella fase di riconoscimento.

Le pecore possono riconoscere un individuo da un’immagine bidimensionale, analogamente ai primati.




Uno studio, questo, che il professor Marc Bekoff ha definito molto interessante e significativo, anche se si dice scettico riguardo all’intento di utilizzare questa ricerca per sperimentare sulla pecora terapie geniche riguardanti patologie degenerative umane come la malattia di Huntington e il morbo di Parkinson.

Tornando all’agnello pasqualino, leggo spesso sui social media che ci si dovrebbe astenere dal macellare almeno i cuccioli. Non capisco il senso di questa frase, poiché non ho mai incontrato animali adulti stanchi di vivere, ma riporto qui di seguito la tabella di Essere Animali che ci ricorda come, a parte gli individui usati a scopo riproduttivo, gli animali che riempiono i nostri piatti siano effettivamente tutti cuccioli. Come la mettiamo?

Quanto vivono gli animali?

Cosa accadrà quest’anno agli agnelli e ai capretti marzolini d’Italia?
I dati ISTAT ci dicono, nel periodo pasquale, la macellazione di ovini e caprini quota 3 milioni e 300 mila agnellini circa, di soli 22 giorni, più altri 700mila capi per un totale 5.600 tonnellate di carne.
I dati AIDAA relativi al marzo 2018 dicono che quest’anno c’è stato un incremento del 40% di richiesta di carne di agnello da latte rispetto allo scorso anno.
Mancando i dati, tali resoconti non parlano degli agnelli di macellazione casalinga e clandestina.

Che conclusioni trarre dalle narrazioni di allevamento, collocabili tutte tra il grottesco e l’orripilante?

Il nostro rapporto con gli animali domestici è tutto da ricostruire.
I ricordi della vita con loro, con gli animali domestici, si stanno perdendo. Le città parlano nient’altro che di Sapiens. I nativi digitali cresciuti a cartoni animali e videogame dovranno riscoprire daccapo gli animali con lo stesso stupore di un incontro con E.T.

Nel suo Gli animali come pazienti morali, Roberto Marchesini scrive degli animali domestici in modo più che esaustivo:

“Sono tenuti in uno stato di sovranità limtata, a differenza degli animali selvatici che sono completamente liberi di scegliere la loro vita.”

Non esistono in natura e il loro deficit di titolarità non va imputato al semplice fatto che li teniamo insieme a noi e non possono vivere in libertà:

“Avendoli domesticati, noi abbiamo modificato la loro natura in modo irreversibile rendendoli dipendenti da noi. L’incapacità di sottarsi e di emanciparsi non dipende da loro come individu, ma dalle modificaizoin genetiche che li hanno resi antropodipendenti. Questo è il motivo per cui l’essere umano ha una responsabilità morale per il benessere degli animali domestici, che non ha nei confronti degli animali selvatici, verso i quali dovrebbe limitarsi a non interferire con la loro vita e a non distruggere il loro ambiente.”

Immagine di copertina: kansasfarmer.com