
di Roberto Marchesini
Il buon pastore
C’è qualcosa di comune nell’essere mammiferi, inevitabilmente declinati al femminile, figli di quelle cure parentali da cui si accende la consapevolezza di esserci, paradosso di un principium individuationis che si realizza nel dialogo materno e non nei cupi recessi del cogito cartesiano. E in quella comunanza sta l’offerta di cibo che un bambino spontaneamente fa quando incontra un animale, il riconoscimento di un cucciolo che ci fa provare tenerezza e il desiderio irresistibile di prendercene cura.
Essere mammiferi significa avere una recondita voglia di adozione, condividere una dimensione lattea che si esprime nel maternaggio come nell’etimologia della parola alunno. Essere mammiferi è una geometria esistenziale inevitabilmente instabile sul parapetto dell’intraspecifico, tendenza a sterminare i confini davanti al segnale pedomorfico: come i batteri si trasferiscono plasmidi, i mammiferi si contaminano nel flusso epimeletico.
La lupa adotterà i gemelli fondatori di Roma, come il papua della Nuova Guinea si lascerà fotografare mentre allatta un piccolo suino, come mille altre storie del quotidiano che scivolerebbero dalle pagine algide dei resoconti etologici, tra gatti che adottano ratti e leonesse antilopi, gorilla cuccioli di cane, non fosse per quella grande tata di Konrad Lorenz che si porta dietro il caravanserraglio imprintato.
Essere mammiferi e non dominatori ha iniziato il grande cammino della società multispecifica, la reciproca domesticazione tra uomo e cane… ma poi cosa è successo? C’è qualcosa d’immondo nel prendersi cura di un cucciolo per poi ucciderlo e penso che ogni mito, ogni religione, siano l’espressione di una vergogna rimossa. Fiero il cacciatore rincorre il mondo animale, con la bramosia del predatore, uccide, certo, ma non tradisce il patto di chi si affida a te perché fin da piccolo te ne sei preso cura. Dove finisce allora la metafora del buon pastore, se alla fin fine il collo di quello che a tutti gli effetti è tuo figlio viene reciso? Immagini bucoliche riempiono allora il nostro presepe, immagini che cercano di nascondere una verità difficile da mandar giù, per un mammifero.
Le “tradizioni” culinarie
Forse non si riflette abbastanza su cos’è un agnello. È un cucciolo e come tutti i cuccioli ha bisogno di avere accanto a sé una mamma che si prende cura di lui e lo tiene in una condizione di serenità. In una folla di agnelli stipati in uno spazio angusto non c’è solo l’orrore per la mancanza dei requisiti minimi di benessere: avere uno spazio a disposizione, essere libero dalla fame e dalla sete, non correre il rischio d’incidenti gravi – inevitabili in una folla spaventata.
Dobbiamo immaginare una folla di bambini, al di sotto dei due anni, che disperatamente cercano la mamma e piangono senza conforto e ininterrottamente, giacché la loro paura è aumentata dal pianto degli altri cuccioli, dalle urla degli uomini, dalle caratteristiche dell’ambiente, dall’odore della sofferenza e del sangue. Ma è un umanizzare? Gli agnelli soffrono come i bambini? Per quanto riguarda la paura direi addirittura di più, perché come prede hanno un sistema emotivo molto sensibile e sono più portati a spaventarsi rispetto agli umani.
Nei video che ci arrivano vediamo solo l’orrore esplicito, quello che ci parla di agnelli calpestati, di agnelli palesemente sofferenti, di strutture vessatorie e di modalità di manipolazione che non verrebbero minimamente usate se invece che agnelli ci fossero oggetti preziosi. L’agnello che viene gettato come un sacco di patate dentro un camion è meno che un oggetto prezioso. Quello che solo un etologo può vedere sono le espressioni comportamentali di disperazione, l’immersione in un universo percettivo di sofferenza e morte, gli atteggiamenti di ricerca parentale e lo stato di terrore.
Guardando i filmati dei trasporti, delle manipolazioni, della macellazione, ho la netta sensazione di assistere a un girone dantesco, un inferno che purtroppo abbiamo costruito noi umani, un atelier di mostruosità di cui noi siamo produttori, registi e protagonisti.
Gli agnelli ancora pienamente coscienti agganciati di fianco ad altri agnelli con la gola recisa, con il sangue che gocciola su di loro mi ricordano il quadro di Giotto dedicato a Satana presente nella Cappella degli Scrovegni. Lo stesso orrore si prova di fronte a questo tripudio di mostruosità ove non c’è il benché minimo rispetto verso il dolore e la sofferenza, dove non c’è spazio per la pietà.
Negli occhi terrorizzati di quegli agnelli, stipati l’uno sull’altro in attesa di essere barbaramente uccisi, dovremmo allora interrogarci sulla nostra idea di “tradizione”. A questo punto, attraverso il volto di coloro i quali diventeranno carne sulle nostre tavole, capiremo che non c’è pasto luculliano che possa giustificare tale dolore.
Immagine di copertina: mybaba.com