
di Roberto Marchesini
Rivisitato e aggiornato, torna il robot per la famiglia con fattezze di cane firmato Sony.
Entrato in produzione nel 1999, AIBO è considerato una delle invenzioni più influenti nella storia della tecnologia del Giappone. Il nome è un acronimo (Artificial Intelligence Robot) scelto per l’omonimia con aibō, che in giapponese significa amico, compagno.

La prima versione di AIBO era di colore argento, somigliava a un beagle e riconosceva circa cinquanta parole. Le versioni successive divennero via via più espressive, muovevano le orecchie, scattavano foto e riconoscevano il proprio nome. Per i meno abbienti, furono messe sul mercato due versioni economiche, meno sofisticate e senza collegamento wireless: AIBO Latte e AIBO Macaron.
Il modello con cui si concluse il primo periodo di produzione alla fine del 2005, causa gli elevati costi di sviluppo, esprimeva le emozioni tramite luci LED e, oltre alla pallina in dotazione anche con gli altri modelli, portava con sé un osso e un mazzo di carte da gioco.

Nel 2014 chiudeva anche l’AIBO Clinic, il centro di assistenza ufficiale, evento che mandò nel panico i proprietari dei vecchi modelli che paventarono il rischio di dover dire addio ai loro cani robot in caso di guasto. E non è una sciocchezza, visto che in Giappone, ad Isumi, nel gennaio del 2015, si celebrarono cerimonie funebri ufficiali per diciannove cani AIBO colpiti da guasti irreparabili.
AIBO nasce come robot da intrattenimento ad uso domestico. In seguito, viene adottato in ambito universitario a scopo educativo (partecipando, per esempio, alle edizioni di Robocup, una competizione annuale internazionale di robotica) e per attività di ricerca sulle interazioni uomo-robot.
A partire da gennaio del 2018, Sony ne propone un nuovo modello (al momento venduto solo in Giappone) con una intelligenza più sofisticata, movimenti più fluidi e un aspetto molto più simile a quello di un cane.
Il nuovo AIBO risponde ai comandi vocali e cambia espressione del volto appropriatamente: si avvicina quando chiamato, scodinzola, dorme, si gratta, sorride, guarda con espressione tenera ed è in grado di rialzarsi quando cade. I suoi comportamenti sono autonomi e dipendono dal suo stato d’animo, si ricarica in tre ore e per interagire con lui basta un’app.
Il costo del nuovo AIBO è di circa millecinquecento euro a cui si aggiungono settecento euro per il piano triennale dei costi dei servizi di connessione al cloud, che ne aggiorna e aggiusta costantemente le funzioni, e l’uso dell’app.
Il realismo con cui viene realizzato il nuovo AIBO ha come scopo quello di creare un legame sempre più forte con il proprietario, come se fosse un cane vero. Grazie alla tecnologia OLED (la stessa dei display arrotolabili), oggi gli occhi di AIBO brillano di luce propria grazie a diodi organici che non si surriscaldano, consumano poco e commuovono l’acquirente.
Che senso ha un oggetto come AIBO? Il nostro bisogno di essere a contatto con gli animali si scontra sempre più conflittualmente con stili di vita incompatibili ed è sempre più difficile poter prendersi cura di un animale da affezione. Dunque, se togliamo la parte “problematica” – nutrirli, portarli in passeggiata e correre il rischio di ritrovare la casa a pezzi al rientro dal lavoro – ricerchiamo un modo per conservare la parte “gradevole”, quella relazionale/emozionale, una realtà artificiale che ci consenta di continuare ad assecondare i nostri desideri.
AIBO ha un bel colore bianco avorio, è di piccole dimensioni, ha le orecchie grandi e scodinzola, ma non sporca, non abbaia e non combina malestri perché i suoi comportamenti non sono dettati da un etogramma canino, ma da un software di intelligenza artificiale.
Video di Sony Aibo per la presentazione del nuovo modello del cane robot (31 ottobre 2017):
https://www.youtube.com/watch?v=sJciRIZQTg4
Nel libro Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other (Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri), la sociologa e psicologa del MIT di Boston Sherry Turkle, descrive come la tecnologia modelli la nostra intimità e riporta alcuni racconti di esperienze di convivenza con AIBO. Leggiamo per esempio di Ashley, una ragazza di diciassettenne anni, che afferma di provare imbarazzo nel premere il tasto di alimentazione del robot. Sa che AIBO non è un essere vivente, ma si sente comunque a disagio all’idea di spegnerlo. La sua esperienza con AIBO è del tutto analoga a quella con un essere vivente, è perfettamente consapevole che AIBO non sia vivo, ma lei gli parla e per lei è strano spegnerlo premendo un bottone, è una cosa che la innervosisce. Si rivolge a lui come al suo gatto e, quando AIBO accende la luce rossa che indica frustrazione, Ashley pensa davvero che lui sia arrabbiato, anche se sa benissimo che il robot non sta provando davvero quell’emozione. La ragazza è come intrappolata fra due categorie e ha un atteggiamento ambiguo nei confronti del robot verosimile: lo considera al contempo macchina ed essere vivente.
Hiroshi Funabashi, ex ingegnere Sony, racconta che i proprietari di AIBO considerano i tecnici del servizio assistenza non come ingegneri, ma come dei medici. Con i clienti non si utilizza la parola riparazione e i proprietari spesso si riferiscono ai malfunzionamenti dei loro AIBO indicandoli come dolori alle articolazioni.
Senza entrare nel merito delle varie interpretazioni e valutazioni dell’Intelligenza Artificiale in futuro prossimo o remoto, AIBO esprime il bisogno umano non soffocabile di convivere con altre specie. Continuare ad annichilirlo, continuare a negare quanta parte di noi si trovi trasfusa nelle altre specie avrà come inevitabile e ricorrente esito una società nevrotica, autodistruttiva e intollerante.
Fonti: gizmodo.com/arstechnica.com/theguardian.com/dailymail.co.uk/independent.co.uk/Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other, Basic Books, 1st Edition, Oct 2012
Immagine di copertina: thenextweb.com