
di Nicola Gianini
Quando si parla di animali ci si riferisce, il più delle volte, agli animali non umani, relegando il tema a una dimensione aneddotica e suggestiva. Un approccio che testimonia come la distinzione uomo vs. animali sia ancora molto forte, dove l’interesse per questi ultimi, non di rado, è da intendere come una curiosità superficiale.
Eppure sempre di più la ricerca scientifica tratta i comportamenti umani al pari di quelli di qualunque altro animale, dimostrando come la nostra identità non si distingua, nella sostanza, da quella delle altre specie. Un’affermazione che potrebbe suonare provocatoria e bizzarra, proviamo allora a difenderla.
Darwin è stato, di fatto, il primo a trattare l’essere umano come un animale tra gli animali, dimostrando come la nostra specie sia discendente di un lungo percorso evoluzionistico che imparenta ogni specie vivente. In seguito l’etologia, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, ha iniziato a studiare più nel dettaglio i comportamenti umani utilizzando gli stessi parametri e le stesse metodologie usate per oche, cani, corvi, api e via dicendo. Studi che sono stati osteggiati da molti ricercatori poiché, a loro modo di vedere, l’essere umano veniva ridotto a semplice animale: “non si può ridurre l’uomo all’etologia” è stata l’obiezione. Come se, per seguire la stessa logica, si potesse ridurre l’universo alla fisica della relatività. Dovrebbe essere ovvio che ogni approccio scientifico offre una cartina orientativa della realtà, una visione parziale e prospettiva, non certo assoluta. E allora ci si rende conto che tale critica puzzava più di pregiudizio che di reale confutazione scientifica. Infatti l’etologia ha prodotto molti interessanti studi in cui si è svelato il senso profondo di molte azioni umane, dimostrando che la gran parte dei comportamenti che intuitivamente pensiamo essere evoluti, o che riteniamo appartenere alla società tecnologica e non più riducibili alla dimensione animalesca, in realtà sono un’espressione solo formalmente diversa ma sostanzialmente identica ai comportamenti espressi dalla nostra specie quando ancora vivevamo nelle foreste come raccoglitori.

Facciamo un esempio prendendo spunto da uno dei referenti che maggiormente caratterizzano la nostra epoca: l’uso dello smartphone. Molte analisi – anche di importanti studiosi e ricercatori – si concentrano sul fatto che questi supporti tecnologici avrebbero inaugurato nuove modalità di pensare e di strutturare la nostra mente come se avessero creato prestazioni cognitive precedentemente inesistenti. Una lettura che mi risulta quantomeno bizzarra. La domanda da porci, più semplicemente, dovrebbe essere “perché gli smartphone in poco più di dieci anni di esistenza sono riusciti ad ottenere un successo di diffusione così epidemico?”. Quali le ragioni di questo successo?
Per rispondere alla domanda la prendo un po’ larga e prendo spunto dal comportamento del gatto, e in particolare di un gatto che gioca con un gomitolo di lana. Perché il piccolo felino trova interessante il suo giocattolo? La risposta è che non è il gomitolo ad essere interessante in quanto tale, ma lo diventa perché permette al micio di esprimere la sua motivazione predatoria: il gatto si è evoluto per milioni di anni come cacciatore di topolini e altri piccoli animali, ma anche in loro assenza è interessato a utilizzare questa sua predisposizione indirizzandola su altri target, come ad esempio, un gomitolo di lana. Quindi, per capire le ragioni per cui un gatto gioca con un gomitolo, occorre capire quali siano le sue predisposizioni, in altri termini, quale sia la sua dotazione cognitiva.
Cosa c’entra questo con lo smartphone? La risposta è molto semplice: così come il gomitolo interessa al gatto perché gli permette di esprimere la sua natura di predatore, allo stesso modo queste nuove tecnologie interessano l’essere umano perché permettono di esprimere un’ampia dotazione di predisposizioni comportamentali sviluppate in un lungo percorso evoluzionistico. Quali?
La prima fa riferimento alla dimensione sociale: comunicare, sentirsi in relazione con qualcuno, dialogare, ecc. Inoltre possiamo fare riferimento ad una motivazione ludica: i primati, quindi anche noi umani, sono degli animali che fanno del gioco una delle loro caratteristiche più significative. E lo smartphone permette di dare sfogo a questa attitudine grazie alla possibilità di svolgere varie attività ludiche. Un’altra caratteristica importante è riferita alla motivazione sillegica: noi umani ci siamo evoluti come raccoglitori e nella nostra storia lontana e vicina abbiamo raccolto, per sopravvivere, frutta, bacche e radici. Con lo smartphone questo comportamento è fortemente sollecitato attraverso la possibilità di scaricare applicazioni, che da un punto di vista cognitivo è, per l’appunto, l’equivalente del comportamento di raccolta.
Inoltre queste nuove tecnologie ci permettono di effettuare delle vere e proprie esplorazioni, ma non più di tipo territoriale (come abbiamo fatto per migliaia e migliaia di anni), ma di tipo conoscitivo-astratto grazie alla possibilità di – guarda caso – navigare in internet. Infine possiamo notare un comportamento molto peculiare dell’essere umano: la cura parentale. Ebbene sì, lo smartphone è in larga misura utilizzato come oggetto di cure, di attenzioni, come fosse una sorta di surrogato di un cucciolo. Lo notiamo, ad esempio, nella maniacale attenzione alla sua incolumità, o alle nostre ossessive attenzioni quando suona (o squilla) richiamando la nostra attenzione. O nelle autorassicuranti manipolazioni aptiche in cui viene coccolato con lunghe e costanti “carezze”.
Insomma, il senso di questa riflessione è che non è affatto corretto pensare allo smartphone come un supporto che ha inaugurato comportamenti nuovi e anti-animaleschi, lontani anni luce dall’uomo del Paleolitico. In realtà sono proprio i comportamenti che si sono strutturati in quella fase evolutiva (e anche in altre precedenti) che vengono attivate nell’utilizzo di questa nuova tecnologia digitale. Cambia la forma, cambia la dimensione espressiva ed emergenziale, ma la sostanza dei comportamenti è sempre quella.
Già perché, tornando a Darwin, l’evoluzionismo non ha dimostrato che l’uomo discende dalla scimmia, ma semmai ha dimostrato che l’uomo è (ed è rimasto) una scimmia.
L’autore
Nicola Gianini
Si occupa di zooantropologia con l’Associazione Orion promuovendo progetti didattici e di analisi culturale in riferimento al valore referenziale della relazione con le alterità animali.
Intrecciando le esperienze zooantropologiche a quelle nell’ambito educativo con adolescenti problematici, è impegnato in un progetto teso a delineare i tratti di una pedagogia etologica, che consideri le nostre dotazioni di specie come vettori su cui agire nei processi riabilitativi.
È autore di Dal singolo al gruppo, Storie di ghiaccio, Un cane per maestro pubblicati presso le Edizioni Fontana
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