
Il canarino è pet per antonomasia giacché, da quel che mi risulta, a parte il famoso ruolo di sentinella ambientale attribuitagli dai minatori, la sua presenza nel nostro mondo è scarsamente riconducibile a una qualche forma di mero utilizzo. È incredibile pensare che il cane, notoriamente legato alla storia dell’umanità, e il canarino abbiano un’origine semantica comune.
L’arcipelago delle Canarie, terra d’origine di Serinus canaria, era stato così chiamato già dai romani per via della massiccia presenza di cani rinselvatichiti. In effetti queste isole, considerate l’estremo limite occidentale per i punici e i latini – il luogo del sole morente, dal verbo occido da cui deriva solem occidentem – furono meta di numerosi popoli, ma solo nel XIV secolo ad opera del genovese Lanzarotto Malocèllo e poi nel XV secolo nei viaggi del normanno Jean de Béthencourt, le Canarie furono oggetto di minuziose ossevazioni, richiamando l’interesse verso un curioso uccelletto verde col dorso grigio e il petto giallo, caratterizzato da un magnifico canto, da cui l’inizio della domesticazione del canarino.
I canarini di oggi ricordano ben poco il canarino selvatico, che viceversa ha strette affinità col verzellino. Negli anni Settanta il saggio di Vittorio Menassé fu per me una sorta di sillabario e la grande varietà tipologica che potevo riscontrare nelle mostre e nei negozi richiamava la mia attenzione, quantunque già i primi dubbi sul modo di tenere questi uccellini in piccole gabbie e le smanie di selezione operate dagli allevatori cominciavano a farsi strada nella mia mente di adolescente. In particolare inorridivo per la razza Gibber italicus, che mi faceva molta pena. Il piumaggio dorato indubbiamente mi conquistava, come già era successo nel XVI secolo a Shakespeare e alla regina Elisabetta I quando le prime variazioni in tal senso cominciavano a comparire, separando il canarino domestico dal suo progenitore selvatico.
Il retrobottega di mio nonno Salvatore – il negozio si trovava a Viserba, un paesino vicino Rimini, dove andavo a trascorrere le vacanze estive – era una specie di allevamento di fringillidi che lui accudiva con amore e grande capacità. Se chiudo gli occhi sento ancora il mélange olfattivo di vino, umidità, odore di mare e di cacca di canarini, con un vago retrogusto di granaglie e di pastoncino all’uovo. Mio nonno affetto da sordità e i canarini, notoriamente cantanti per vocazione, davano vita a un ossimoro che ancora mi meraviglia.
L’atelier delle mie prime esperienze ornitologiche è stato un retrobottega: davanti mio nonno vendeva vino – allora lui chiamava il negozio col termine romagnolo di «fiaschetteria» e non con la più pomposa qualifica di enoteca – nel retro, come in ogni romanzo di fantascienza, come due complici armeggiavamo tra miscele di granaglie e pastoncini che lui stesso preparava mescolando tuorlo d’uovo, farina di mais e radicchio sminuzzato. Come Darwin aveva fatto apprendistato tra gli allevatori di colombi, nel periodo estivo io conducevo il mio seminario d’infanzia in mezzo ai canarini. Certo, allora non me ne rendevo conto, e tuttavia in quei pomeriggi di agosto, frastornanti di cicale e di feste paesane a base di liscio e sangiovese, si andavano costruendo le architravi del mio carattere.
Per questo sostengo la necessità che i bambini frequentino i loro nonni, perché hanno un’ importanza educativa che non sempre i genitori capiscono. Ma torniamo ai canarini. Mi piaceva osservare i loro rituali di corteggiamento, ero affascinato dalla schiusa delle uova, impazzivo nel cogliere le cure parentali, volevo imparare a distinguere i vari maschi chiudendo gli occhi e limitandomi ad ascoltarne il canto. Ma ero soprattutto interessato a come si muove- va mio nonno: come dava loro da mangiare, come li osservava e come sceglieva i riproduttori, come compiva la speratura senza far ingelosire la femmina, che in caso contrario avrebbe potuto abbandonare la covata.
La speratura è quell’operazione che permette, circa una settimana dopo l’ovodeposizione, di vedere se l’embrione si sta formando oppure se l’uovo è sterile. Oggi viene compiuta con una lampada a penna, mentre mio nonno la faceva ponendo l’uovo tra le dita e guardandolo in controluce. Penso che fu lì che cominciai a sentire la magia delle uova e della nascita: ogni volta era per me un’emozione unica. Continuo a pensare che gli uccelli abbiano una marcia in più rispetto ai mammiferi, quantunque il nostro antropocentrismo ci porti a costruire una tassonomia ad usum Delphini, vale a dire piegata per compiacere il nostro bisogno di ritenerci al vertice, ponendo i mammiferi al culmine della piramide dei vertebrati.
D’altro canto so che, in una logica strettamente naturalistica, questa mia preferenza non ha senso, giacché ogni animale è ugualmente evoluto avendo percorso lo stesso tragitto temporale. Se la vita sulla Terra ha 3,8 miliardi di anni ogni specie ha avuto una filogenesi, vale a dire una storia evolutiva, pari a questo tempo. Inoltre è scorretto pensare che una categoria di animali sia più evoluta di un’altra, per il semplice motivo che in una visione darwiniana evolvere non significa migliorarsi ma specializzarsi. E allora? Beh, avere una marcia in più non significa per me essere superiori ma possedere un appeal particolare.