
Diviene spontaneo banalizzare il cane, trasformarlo secondo le direttrici antropocentriche del nostro immaginario. Addomesticarlo… ma non nel corpo, dove già abbiamo oltrepassato le colonne d’Ercole, quanto nella percezione che abbiamo di lui.
Ne abbiamo addomesticato il profilo per evitare di intraprendere un viaggio che necessariamente ci chiede un eccentramento non facile. Per farlo dobbiamo spingere l’acceleratore dei nostri meccanismi di sicurezza psicologica: osare di guardare il cane negli occhi, seppur metaforicamente. Addomesticare può voler dire trasformare il cane in una macchina che possiamo completamente controllare attraverso un libretto di istruzioni, come per altro può significare assimilarlo completamente al nostro mondo interiore onde raggiungerlo attraverso proiezioni analogiche.
Tuttavia in questo modo non lo raggiungiamo: tanto nel macchinomorfismo quanto nell’antropomorfismo non usciamo dal nostro spazio, non dialoghiamo. Addomesticare in entrambi i casi significa togliere la parola, annichilire l’incognito, omologare su di noi, “antropo-formare” il cane. Alla fine sempre il selvaggiamente cane farà ritorno. Se la seconda metà del Novecento ha “elevato” il cane a compagno fedele di una quotidianità claustrale, bisognosa di vicariare le sue innumerevoli insicurezze sociali e affettive come di surrogare un prossimo sempre meno presente e vicino quantunque esorbitante, ciò nondimeno il cane ha perduto spazi dove mostrare le sue qualità e i suoi contenuti.
Il cane dei rotocalchi e dei talk show televisivi non ha più niente da dire o, meglio, noi non abbiamo più orecchie per ascoltare ciò che lui potrebbe dirci. Antropo-formare significa recidere le radici della sua autenticità, potare in modo azzardato le gemme portanti del suo profilo, filtrare attraverso un setaccio a maglie strette le sue innumerevoli potenzialità espressive. C’è una notevole differenza tra il declinare le potenzialità filogenetiche, seppure su territori esorbitanti, e, al contrario, chiudere le possibilità espressivo-declinative per miopia rispetto alla complessità o per paura dell’imprevedibilità.
Antropo-formare significa preferire un modello rispetto al cane in carne e ossa oppure, in altre parole, rinunciare al rischio di uscire dai propri panni, quantunque frusti e logori. Indossiamo la veste tecnicista quando ci rivolgiamo al cane-macchina – le macchine, come si sa, sono delle riduzioni sui sistemi complessi che ci permettono di controllare i fenomeni – o viceversa assumiamo lo sguardo pietistico quando ci rivolgiamo al cane-antropomorfo da raggiungere lungo i percorsi involuti e privati dell’introspezione: in realtà rimaniamo sempre nei nostri panni. Ed è strana e contraddittoria questa povertà d’immaginazione, se penso a quante energie di astrazione profondiamo per raggiungere l’alterità, quando la pensiamo con la “a” maiuscola e rivolgiamo gli occhi al cielo.
Cosa più del cane esprime in modo diretto e familiare il concetto di alterità?