
Il molteplice canino come qualunque catalogo spogliato da un’effettiva convergenza di vita, rafforza e concretizza l’ideale consumistico dell’individualismo, trasformando il cane in uno dei tanti gadget e accessori che orbitano intorno all’obesità esistenziale dell’uomo occidentale.
La scelta si fa proiettiva e non correlativa: voglio un cane che mi assomigli, che mi testimoni, che mi espliciti. E qui la mente corre attraverso gli innumerevoli ricorsi di assonanze – del tipo: “sta bene con” – che ci portano a vedere nel cane nient’altro che uno dei tanti elementi rappresentativi. Nel territorio controverso e affascinante delle razze ci approcciamo nel peggior modo possibile, quello della standardizzazione morfologica, dell’oggetto prodotto in scala, della pretesa reificatoria che trasforma il cane in uno status symbol.
Fin dall’antichità l’uomo ha selezionato i cani sulla base di disposizioni morfologiche e comportamentali, quindi il discorso delle razze segue istanze relazionali precise, su cui si può discutere ma la cui entità zooantropologica è innegabile. D’altro canto le razze come noi le conosciamo, ovvero la definizione rigida di standard morfologici, è un portato del tardo XIX secolo e soprattutto del XX secolo, quindi recente e ancor poco studiato negli effetti della segregazione genetica. È innegabile che già da anni stiano emergendo patologie genetiche dovute all’espressione di caratteri recessivi selezionati dalle pratiche di inbreeding.
Potremmo ritenere questo effetto un portato perverso della mancanza di scrupoli nelle prassi cinotecniche, ma non credo che le cose siano così semplici. Forse sta proprio nell’angustia segregativa il grande rischio per la salute del cane, ossia nella definizione troppo rigida dei parametri morfologici. Ma questo ovviamente risponde alle esigenze consumistiche. Tra l’altro, l’attenzione esasperata agli standard morfologici rischia di compromettere la selezione sulle caratteristiche vocazionali, la tendenza a effettuare una particolare performance, e attitudinali, la capacità di effettuare una particolare attività.
La banalizzazione del cane e della relazione con il cane, quantunque condita di buonismo e comunque imbandita all’interno di rigidi copioni affettivi, facilita questo processo perché allontana la riflessione consapevole sui caratteri autentici di relazione. L’antropomorfizzazione non solo rende il discorso sul cane un argomento da trattare con leggerezza e quindi facile a ogni caduta nel pittoresco, ma altresì cesella le fondamenta per una sorta di zoofisiognomica da salotto.
C’è poi un altro aspetto che si presta a pericolose derive. La scelta della razza, seguendo presunte consonanze caratteriali, può avere addirittura riflessi deleteri sulla persona, perché basata non sulla complementarietà del rapporto, bensì sull’incentivazione delle caratteristiche, talvolta non proprio le migliori, della persona. E non vi è dubbio che tale scelta abbia sul cane effetti ancor più negativi, perché tende a incentivare gli eccessi anziché mitigarli e a degenerare le predisposizioni invece che disciplinarle. Quando parliamo di vocazioni-attitudini, non necessariamente ci riferiamo a virtuosismi, bensì a tendenze che devono essere tradotte in virtù attraverso un percorso disciplinativo teso a dare competenza alla propensione.
Pertanto le virtù possono trasformarsi in vizi se si sbaglia il canone declinativo e un talento può degenerare in una mania. Allo stesso modo è errato parlare di un peccato di pericolosità in alcune razze ed è più corretto affermare che la pericolosità è frutto di uno sbaglio nella declinazione delle vocazioni-attitudini. Per questo preferisco la complementarietà all’affinità elettiva, giacché nella prima c’è necessariamente una convergenza che porta alla disciplina, mentre nella seconda c’è il rischio dell’effetto degenerativo.