
Le porzioni sud-orientali del Paleartico occidentale hanno fatto da sfondo al verificarsi fenomenico della produzione del cibo, attraverso la nascita dell’agricoltura e la domesticazione di alcune specie animali, processo che si è avviato a partire da circa il X millennio a.C. nel Vicino Oriente, condizionando in profondità il futuro sviluppo civile ed economico delle comunità umane (Ammerman & Cavalli Sforza, 1984; Scossiroli, 1984; Giusti, 1996; Masseti, 2002).
Le più antiche evidenze di questo importante cambiamento culturale ci provengono dal settentrione della cosiddetta “Mezzaluna Fertile”, dalla provincia di Urfa, in Turchia, non lontano dal confine siriano. Il sito preistorico di Göbekli Tepe ha restituito la prima documentazione della domesticazione degli ungulati, come a capra, Capra aegagrus, la pecora, Ovis orientalis, ed il maiale, Sus scrofa, riferita cronologicamente al 9000 a.C. circa (Peters et al., 1999; Schmidt, 1999). Questo processo di selezione artificiale, seppur relativamente breve, “…ha trasformato l’umanità in un enorme esperimento evoluzionistico di adattamento, selezione e speciazione” (Bressanini, 2014).
Ma in una relazione mutualistica tipica del processo di domesticazione, ha anche reso gli animali dipendenti dall’uomo, capaci di sopravvivere solo se allevati in condizioni controllate. In realtà, la domesticazione consiste nell’assoggettamento permanente di una specie animale all’uomo e la permanente assuefazione della stessa alla convivenza con lui ed allo sfruttamento da parte di quest’ultimo delle energie ed, allo stesso tempo, della stessa esistenza dei vari individui della specie zoologica, anche per utilità puramente morali ed estetiche (ad esempio: diletto, compagnia, ostentazione, ecc.) (Masseti, 2002, 2006).
La domesticazione si manifesta essenzialmente:
1. nel fatto che l’uomo provvede all’alimentazione e protezione dei singoli individui della specie;
2. nella destinazione delle energie e/o della stessa esistenza dei singoli individui al soddisfacimento delle esigenze dell’uomo;
3. nell’animus revertendi e/o nello stato di cattività dei singoli individui della specie (Masseti, 2002).
Mainardi (1984) ha osservato come la domesticazione sia in realtà: “… un processo biologico in continuo cambiamento, in relazione al progredire culturale dell’uomo”. Salvo rare eccezioni, infatti, una specie animale non può essere considerata totalmente e definitivamente domestica; il suo mantenimento in questo stato dipende soprattutto dall’uomo e dalla sua azione (Digard, 1990). La domesticazione deve essere stata una componente della «neolitizzazione» al pari della cosiddetta “cinegetizzazione”, la prerogativa di una gestione mirata delle risorse venatorie (Vigne,1993).
La “cinegetizzazione” sembra di fatto l’indispensabile passaggio culturale da cui si sarebbe in seguito originato il processo di domesticazione. Con il neologismo –“cinegetizzazione”, appunto – si indica l’utilizzo ai fini venatori da parte dell’uomo di quelle specie zoologiche che non sono state in grado di reagire positivamente agli stimoli della domesticazione e per questo consacrate ad un ruolo complementare, quello della selvaggina. In area mediterranea, il fenomeno è documentabile a partire da cronologie molto antiche ed ancora francamente mesolitiche, collocabili fra il X millennio a.C. per Cipro (Vigne et al., 2009) e l’VIII millennio a.C. per l’isola di Youra, nelle Sporadi settentrionali (Mare Egeo, Grecia) (Masseti, 2007).
Tuttavia, quando si trovino ancora in uno stadio molto preliminare di questo processo, gli animali che vi sono coinvolti non possono essere ovviamente definiti come domestici o anche solo mansuefatti (domati), bensì più semplicemente come assoggettati ad una qualche forma di “controllo culturale” da parte dell’uomo.
Articolo di Marco Masseti
(Tratto da Animal Studies “Humanimalia”)
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