
La mente del gatto è particolarmente vivida: nella sua prontezza di risposta, nell’essere fulminea nella decisione, nella capacità categoriale e distintiva, nella maestria con cui gestisce il corpo, nella memoria di ferro che manifesta, nella propensione attentiva ed esplorativa come nella concentrazione solutiva.
Per comprendere la complessità cognitiva del felino ci soffermeremo su due aspetti in particolare:
1) l’intelligenza emozionale, ovvero la forte sensibilità emotiva o di valore che il gatto manifesta in tutte le occasioni della sua vita;
2) l’intelligenza rappresentazionale, vale a dire la tendenza a costruirsi schemi o mappe chiamate a costruire una sorta di doppio funzionale attraverso cui elaborare le informazioni.
Ovviamente tale distinzione ci serve solo come bussola per cercare di orientarci all’interno della cognitività di questo animale, che in realtà sempre dispone di una valutazione emozionale degli accadimenti e dell’attribuzione di un significato funzionale agli stessi. Il comportamento del gatto, come peraltro nei mammiferi in genere, può tuttavia scegliere quella che viene definita la strada breve, a prevalenza emotiva, con un forte carattere d’impulsività, oppure la via lunga, illuminata sì dalle emozioni ma altrettanto influenzata dalle conoscenze e dalle rappresentazioni che il soggetto si è costruito attraverso l’esperienza.
Non vi è dubbio d’altro canto che una fonte del fascino, che il gatto esercita in noi, sia proprio attribuibile a una riconosciuta competenza intellettiva, anche se non avrebbe senso sostenere che il gatto sia più intelligente del cane, come peraltro viceversa, giacché si tratta di due attitudini cognitive profondamente diverse. Alcune persone tendono a considerare il cane più performativo, perché addestrabile e collaborativo, altri danno la preferenza al gatto, perché più solutivo ed esplorativo, ma si tratta di valutazioni arbitrarie, che non tengono conto del fatto che, come per le caratteristiche sensoriali, anche per quelle cognitive vale il principio adattativo della specializzazione.
Cane e gatto hanno semplicemente scelto strade intellettive differenti, in relazione ad altri aspetti del comportamento, poiché ogni animale è un sistema che presenta, non solo una correlazione all’ambiente, ma altresì una coerenza interna. Non avrebbe senso un’intelligenza collaborativa all’interno di uno stile da solista, né potremmo immaginare un branco fatto d’individualità prevalentemente enigmiste. Al gatto si è soliti attribuire doti di furbizia, talvolta così accentuate da derivare nella malevolenza.
Da un punto di vista etimologico “furbo” indica il ladro, chi si approfitta delle ingenuità altrui, come nella favola “Pinocchio” di Collodi, ove il burattino viene raggirato non a caso dal gatto e dalla volpe. Un altro carattere che viene correlato all’intelligenza è la curiosità e il gatto ne ha da vendere, anche in considerazione della già citata tendenza esplorativa. La curiosità e l’interattività che il micio manifesta nella quotidianità, quando comunque – anche se spaventato – costruisce un rapporto molto stretto con l’accadimento, come se nulla gli sfuggisse, alimenta la nostra immagine di presenza intellettiva del piccolo felino.
Se poi consideriamo con quanta pazienza il gatto sa attendere il momento opportuno, come si concentra sull’obiettivo senza lasciarsi distrarre, con che ostinazione persegue il suo fine, è evidente l’effetto di stupefazione e di ammirazione che suscita in noi. Spesso, infatti, ripetiamo ai nostri figli che per andare bene a scuola occorre non distrarsi, rimanere concentrati, perseguire con ostinazione i propri obiettivi… beh, è proprio quello che i gatti fanno da sempre e sotto i nostri occhi, quasi a fornirci l’esempio esaustivo.