
Antropocentrismo significa conferire una lettura umana al mondo esterno, comprese le alterità animali.
Marchesini di seguito ne espone alcune sue forme.
Non esiste un paradigma che possa dirsi immune dalla deriva confermativa della prospettiva antropocentrata, per cui sono abbastanza critico nei confronti di chi vuole individuare in modo manicheista culture antropocentriche e culture non-antropocentriche, anche se è indubbio che diano vita a forme differenti di antropocentrismo, più o meno eclatanti nel processo di discriminazione o più o meno invasive sotto il profilo del maltrattamento tollerato-promosso nei confronti delle alterità animali.
Troppo spesso – ovviamente non da parte di chi ha consapevolezza animalista – si è pronti a stigmatizzare il maltrattamento operato dagli altri, per cui gli inglesi e gli italiani inorridiscono di fronte alla corrida, ma guaimai a mettere in discussione la fox hunting e il palio di Siena, si condanna la caccia ai cuccioli di foca e alle balene ma si accetta la mattanza del tonno e del pescespada, si condanna la vivisezione ma si dà per scontato il consumo di carne, non si mangia un certo animale se viene considerato pet con ribrezzi etno-dipendenti, si punta il dito contro la macellazione rituale ma si tollera l’allevamento intensivo, si toglie il foie gras dagli scaffali ma si tiene la fettina di vitello carne bianca, si fa largo consumo di rodenticida e nessuno osa la benché minima petizione, si uccide lo scoiattolo grigio per difendere lo scoiattolo rosso, ci si commuove in una mostra felina ma si storce il naso in una prova di equitazione.
È vero che assumere una posizione etica significa sempre condannarsi all’incoerenza – chi non rispetta nessuno è sempre coerente – ma è altrettanto vero che molto spesso le contraddizioni assumono forme eclatanti, tali da richiedere una riflessione. In genere si parla di antropocentrismo facendo riferimento a espressioni di palese discriminazione del non-umano: a) nel riconoscimento di condizioni come la senzienza, intesa quale capacità di provare dolore e non semplicemente di subire una sofferenza organica; b) nel riconoscimento di interessi di base, come le cinque libertà enunciate a seguito del Brambell Report.
L’antropocentrismo etico, a cui molti fanno corrispondere il concetto di “specismo” – o discriminazione dell’altro per il solo fatto di appartenere a una specie non-umana – si basa più che su definizioni ontiche, per quanto variamente chiamate in causa subdolamente e in modo tautologico per giustificare il terreno di gioco degli interessi, su appelli di rilevanza morale o di gradienti che tuttavia sembrano aleggiare nell’etere. In molte culture tradizionali e soprattutto nel pensiero magico, ma altresì nella contemporanea civiltà urbana desertificata della presenza concreta degli animali e per contro affastellata d’icone animali e di tradizioni disneyane, notiamo una prevalenza proiettiva, con antropomorfizzazione dell’eterospecifico che difficilmente viene reificato ma, proprio per questo, con facilità subisce processi di depauperazione dei predicati peculiari.
Tale confermazione della prospettiva antropocentrata, che chiameremo “antropocentrismo proiettivo“, si basa su un’espansione dell’antropos nel mondo esterno, una sorta di deflagrazione – da cui la sensazione di un antropocentrismo centrifugativo – che può avvenire in modo sistemico o globale, con palese antropomorfizzazione del non-umano, oppure parziale e frammentario, con tendenza a riconoscere nei non-umani dei predicati dell’umano. Sia che il processo di antropomorfizzazione plasmi-conformi in modo complessivo e sistemico l’eterospecifico rendendolo irriconoscibile nelle sue qualità – e quindi emarginato perché di fatto non accettato – sia che ciò avvenga in modo parziale, dando vita a una trasformazione satellitare del non-umano, che reso approssimazione non può far altro che orbitare intorno all’uomo ma mai sedersi a tavola con lui, è evidente che l’antropocentrismo proiettivo non consente una situazione dialogica perché toglie all’alterità animale qualunque facoltà di parola.
L’atteggiamento proiettivo spoglia l’eterospecifico delle sue qualità – nel senso di negligere, negare, rifiutare e mortificare i predicati ontici dell’alterità – e in ciò e trasforma la prospettiva antropocentrata, nel suo antropomorfizzare l’altro, in un vero e proprio processo di segregazione del non-umano. Al di là dell’aspetto introspettivo, che chiede prassi cannibaliche e di speculazione (l’animale trasformato in specchio), lo stile proiettivo diventa un progetto sul mondo, la metamorfosi dell’alterità che viene antropoformata, e in questo senso conferma la prospettiva e disgiunge l’essere umano da un confronto vero con l’alterità.
Si tratta, a mio avviso, di una forma di discriminazione dell’alterità estremamente potente in quanto: a) portata alla negazione di un’ontologia altra e incapace di accettare veramente l’eterospecifico nelle sue espressioni divergenti rispetto all’uomo; b) propensa a filiare sulla base della discriminazione del prossimo quasi-umano altre forme di discriminazione ovvero a dar vita a quello che Giorgio Agamben chiama “macchina antropologica”. L’eterospecifico viene coinvolto, suo malgrado, in questo processo di antropoformazione del mondo e trasformato in una particolare declinazione dell’umano a cui assegnare in modo arbitrario contenuti e interessi.
In tal modo l’essere umano non vede più alterità animali, né nel loro apparire fenomenico interattivo – per cui non può rispettarli – né nel loro mostrarsi in modo epifenomenico relazionale – per cui non può riconoscerli, ossia connetterli a sé. Cani costretti a tavola con i loro compagni a due zampe, gatti accarezzati fino al corto circuito elettrostatico, cavalli stabulati dentro ridicoli box che non permettono alcuna forma deambulativa, criceti costretti in gabbiette dorate e dotate di fondo profumato, pesci rossi dentro orrende bocce di vetro di forma sferica. Il magico mondo dei pet nasconde attraverso mille artifici criptici sottili, seppur pesanti, forme di maltrattamento, che ai nostri occhi sembrano regalie: quanto sono viziati questi pet!
Il risultato è una banalizzazione degli eterospecifici e una totale negligenza dell’uomo contemporaneo nei confronti della relazione con il non-umano: ci crediamo autosufficienti nella nostra dimensione ontologica e al più leggiamo la biodiversità con il metro ecologico, estetico, economico, preservazionista.
Ma così facendo non ci accorgiamo che spogliando gli eterospecifici del loro significato referenziale scopriremo che l’uomo (il re) è nudo.
Tratto da Animal Studies
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