
Tra le domande che spesso le persone mi rivolgono, ce n’è una in particolare che vorrei affrontare: se anche gli animali provino quella condizione di pienezza e di soddisfazione, di vigore e parimenti di equilibrio, di armonia con il mondo e di pace con se stessi che siamo soliti chiamare felicità.
Beh, la risposta non è semplice, perlomeno se si vuole individuare una piena sovrapposizione tra ciò che viviamo noi umani e quello che scorre nei circuiti del piacere e dell’appagamento in altre specie. Occorre ricordare, tuttavia, che, almeno nei mammiferi, la conformazione cerebrale e i meccanismi di neuromodulazione sono abbastanza simili, per cui pensare a una totale differenza andrebbe contro le basi evoluzionistiche.
In genere, ci si complica la vita, attribuendo a quel senso di pienezza, la felicità per l’appunto, connotazioni simboliche, narrative, rappresentazionali o di consapevolezza che ne rendono l’attribuzione alla altre specie un affare di stato. E non ci potrebbe essere una felicità più di tono emozionale, meno ragionata, ma non per questo condannata all’immediatezza?
Noi indubbiamente abbiamo una seppur vaga idea di cosa sia la felicità e sappiamo distinguerla da quelle sensazioni istantanee come la gioia, l’euforia, l’eccitazione, poiché la felicità, per quanto possa essere passeggera, è uno stato che si prolunga nel tempo, un po’ come quando siamo innamorati.
La felicità assomiglia più a una dimensione, in cui si è immersi per un certo lasso di tempo, piuttosto che a un semplice fremito emotivo che ci percorra il corpo. Sappiamo, peraltro, che anche negli altri mammiferi esiste un tono umorale, influenzato da diversi fattori fisiologici, non ultimo dalla flora microbica intestinale, così come può verificarsi in loro uno stato di stress prolungato (dis-stress) in grado di mantenere il soggetto in uno stato di cognitività rallentata.
Allo stesso modo si possono verificare condizioni di ansia ricorrente o addirittura permanente, cioè non legata a specifiche occorrenze, così come non è così raro che nel cane e nel gatto si manifestino stati depressivi. Anche lo stato di appagamento, studiato dall’etologia classica, è un evento perdurante. La felicità sembra quasi la condizione inversa dello stato ansioso e depressivo.
Ma, allora, possiamo ammetterla negli animali? Esiste anche per loro questo stato di grazia che si prolunga oltre il momento, che si proietta in un’aspettativa rosea, che crea una dimensione basata su una sorta di armonia e coerenza tra mondo interno e contesto? Oppure l’unica sensazione ammissibile, nei non-umani, è un momentaneo stato di gioia, che semmai perdura nella ripetizione, ma non nella proiezione?
Quando si afferma che le altre specie vivono esclusivamente nel presente, inevitabilmente si nega loro:
– un mondo biografico di ricordi da rimuginare, che non siano le semplici associazioni dei condizionamenti;
– una proiezione nel futuro, vale a dire una capacità programmatica e pianificatoria, che non sia il mero target alla portata degli organi percettivi.
Così facendo, li si condanna (mi si passi il termine) a essere totalmente immersi nel qui-e-ora della situazione. L’animale pensato come una macchinetta mossa dagli stimoli esterni e dalle pulsioni interne, espressivo non in quanto capace di manifestare uno stato psicologico, bensì nel meccanico innescarsi dei suoi automatismi, ovviamente non può provare qualcosa che non sia la sensazione momentanea che gli deriva dalla percezione, dalle emozioni o dalle elicitazioni motivazionali. Sembra assurdo, ma ancora oggi, per molti autori, gli animali ricordano gli automi di Cartesio.