
Il viaggio nel mondo della felinità ha sempre un sapore ambivalente, oscillazione tra l’avvolgente calore che la sua espressione trasmette quasi per osmosi e la vertigine che ci coglie, come di fronte a un precipizio, la sensazione di naufragare in un universo spoglio di confini, senza riferimenti, privo di qualsiasi potestà di controllo.
Non vi è dubbio che la dimensione del gatto abbia a che fare con il senso del sublime, suscitando ammirazione e rapimento, familiarità e al tempo stesso moto di smarrimento. Il gatto non è semplicemente bello: incontrarlo significa accettare il rischio di un coinvolgimento decentrativo, una sorta di Odissea che ci allontana dal porto sicuro, dall’Itaca delle nostre certezze. Nella relazione con il gatto, infatti, non si è mai al timone del rapporto, ma il più delle volte ci si lascia portare in zone sconosciute e remote, ci si abbandona a una sorta di serendipità onirica ove l’imprevisto non solo è lecito ma rappresenta il senso profondo dello stare insieme.
Lo stato di grazia della relazione felina ricorda il camminare sul filo dell’equilibrista, la perfezione di un gesto atletico, sempre compreso tra la riuscita coreografica e la caduta rovinosa, è lo slow-motion che ti lascia con il fiato sospeso. C’è sempre dell’indefinito nel portarsi a noi di un gatto, nella luce magica dei suoi occhi, nell’elongazione lieve che ci scorre sotto il naso: forse per questo gli antichi credevano che il suo sguardo rappresentasse la porta di accesso per un’altra realtà, un mondo parallelo e lontanissimo, un nuovo ordine immaginario.
Il magnetismo felino ci fa slittare dalle coordinate umane e ci porta in una dimensione capace di coniugare la distrazione con l’ispirazione, la sorpresa sulle corde del fenomeno e l’epifania, l’annunciazione colma di vaghezza che si fa presagio e sospensione per un evento a venire. Ne siamo chiamati e avvolti, perfusi nel profondo, e per converso ne avvertiamo la distanza, l’irraggiungibilità nel paradosso orbitale, apostrofo di una condizione a noi prossima ma irrimediabilmente negata, di una relazione che non è mai possesso.
Il gatto sembra essere l’emblema dell’indipendenza e della forza, il paradigma stesso della perfezione atletica, la potenza accelerativa di un centometrista e l’elasticità di una macchina ideata per trasformare ogni più recondito metabolismo in pura forza cinetica. E così ci ripetiamo che il gatto è energia e bellezza, autonomia e autodeterminazione, aristocratico veleggiare sul mondo per poi irrimediabilmente planare sulle più egoiche disposizioni. Il gatto pensa a sé – si dice – e diviene pregiudiziale sentenza di una rotondità che non richiede alcun apporto dal mondo esterno, totalmente bastevole a se stessa.
Si adotta il gatto nell’idea che in fondo non abbia bisogno di ulteriori note. Questa sbandierata autarchia del gatto non è altro che un errore prospettico, la sua forza e quella perfezione che tanto ammiriamo non devono trarci in inganno. Non nego vi siano in lui tali predicati… e, tuttavia, il gatto è anche fragilità, una bolla di sapone che levita e riflette iridescenze proprio perché effimera. Vibranti radici emotive collegano il micio a tutto ciò che lo circonda e lo rendono particolarmente sensibile agli stimoli.
Il gatto va maneggiato con cura ed è tutt’altro che comodo, per usare uno stereotipo che spesso ritroviamo nei manuali, quasi fosse uno dei tanti oggetti che arredano il nostro vissuto. Ogni viaggio nella felinità richiede cautela e moderazione, l’accettare il semplice fatto che qualunque affermazione che faremo sul nostro piccolo amico, ogni pretesa categoriale ed etografica, troverà sempre quel gatto che la smentisce.