
L’estro predatorio del gatto sembra non avere confini: nel suo carattere di solista, e quindi d’individualità performativa, che lo trasforma in un concentrato di energia venatoria, come nella pluralità espressiva, che sviluppa un’incredibile tavolozza di variazioni cromatiche – dal balzare sopra all’uncinare in aria, dal rincorrere allo scovare, dall’attesa paziente allo scatto fulmineo, dall’arpionare in basso al trattenere rapace della struttura palmare e carpale – che ci affascinano nel gioco e paradossalmente atterriscono nella caccia.
L’uccisione della preda è peraltro fulminea, guidata dall’orientamento dei sensori orali e delle vibrisse, attraverso la rottura a livello cervicale e lo sventramento operato con le zampe posteriori. Spesso tuttavia il gatto sembra giocare con la preda, trattenendola e rilasciandola per poi riafferrarla, e tutto questo ci pare crudele, per cui siamo portati a dare un giudizio negativo del gatto, accusandolo di sadismo e di violenza gratuita. A ben vedere, tale comportamento può essere riconducibile a una prevalenza del carattere motivazionale della predazione rispetto a quello più fisiologico della nutrizione, vale a dire a un esubero di orientamento proattivo rispetto a quello più pragmatico dell’alimentazione, forse giustificabile per il fatto che il gatto domestico vede accontentate più le esigenze della pancia che quelle di ordine comportamentale.
D’altro canto, mettendo per un attimo tra parentesi l’aspetto gratificatorio di ordine comportamentale – vale a dire il piacere in sé dell’atto di rincorrere, afferrare, riacciuffare – ho notato che è proprio l’aspetto predatorio quello che sempre più spesso viene rifiutato dalla nostra cultura, che sostiene di amare la natura, ma poi sembra in realtà non accettarla e volerla cambiare a tutti i costi, trovandone alcuni connotati non in linea con quella visione del mondo che si è andata sviluppando soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo.
Sembra cioè che già il fatto d’essere carnivoro possa considerarsi un atto d’imputazione, nell’idea che chi si alimenta di vegetali sia pacifico e buono, mentre chi si nutre di animali sia indiscutibilmente cattivo. Si tratta evidentemente di una proiezione, vale a dire il voler attribuire il carattere di agenzia morale alle specie non-umane, ma è un paradosso che non ha alcun fondamento etico. Gli eterospecifici non possono essere richiamati a responsabilità morali perché, di fatto, il loro essere vegetariani o carnivori non è attribuibile a una scelta, ma a un’assegnazione filogenetca.
La predisposizione predatoria del micio inevitabilmente lo porta a essere interessato e a orientarsi verso ogni entità in movimento, nonché a provare una forte gratificazione nel rincorrere e afferrare. In tal senso possiamo dire che il gatto si diverte a intrattenersi in modo ludico ed esplorativo con tutto ciò che si muove, sia un topolino o una pallina di stagnola. Il gatto perciò non è sadico, nel senso di provare piacere nella sofferenza altrui, ma semplicemente è affascinato dal movimento, a tal punto da venirne calamitato e sentire un forte coinvolgimento emotivo, che potremmo definire tranquillamente con il termine di euforia.
È sbagliato perciò sostenere che il gatto si diverta a uccidere, perché il suo piacere primario sta nel rincorrere e nell’afferrare, e solo in un secondo momento – ma non necessariamente – nel consumare il target del suo divertimento.Come colpisce la pallina per metterla in movimento, così rilascia il topino dopo averlo afferrato, per poter riprendere il suo gioco del rincorrere. Il carattere non passivo del target, la sua tendenza a sfuggire tra le maglie della presa palmare, è ciò che riconferma e gratifica l’orientamento stesso. Non c’è sadismo, non c’è crudeltà, non c’è violenza: il gioco del gatto è una predisposizione riconducibile alla sua natura.