Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

Così simili, così diversi!

Strutture simili, percezioni differenti

A parità di canali sensoriali condivisi, esistono considerevoli differenze di percezione tra le specie. A volte le differenze sono facilmente intuibili giacché l’organo deputato alla ricezione all’interno di un determinato canale sensoriale presenta già in sé delle caratterizzazioni di considerevole distanza, altre volte le differenze sono più sottili, ma nondimeno importanti. Un panorama visivo, olfattivo, uditivo o tattile non è fatto di entità percepite perché oggettivamente emergenti dal contesto, ma di enti che vengono per così dire fatti emergere forzosamente dal contesto e messi in precise matrici di relazione. La somiglianza è solo apparente.

Quanti tipi di occhi?

Prendiamo ad esempio la vista. Gli occhi nel mondo animali presentano svariate fogge: dagli occhi composti degli insetti, formati da tante piccole unità dette ommatidi, agli occhi con cristallino a messa a fuoco variabile dei molluschi, agli occhi telescopici dei crostacei a quelli indipendenti nell’orientazione del camaleonte. Anche la posizione degli occhi rispetto al cranio determina due parametri molto importanti variabili nei diversi gruppi animali: i) l’orizzonte di campo, tanto più ampio quanto più lateralmente sono posti, tipico degli animali che vivo- no in spazi aperti e in genere co uno stile di vita da pascolatore; ii) la profondità di campo, che si ottiene attraverso una posizionalità frontale che permette la visione binoculare, tipica degli animali arboricoli e dei predatori e degli onnivori. Esistono tuttavia differenze più minute, non così palesi, per cui poche persone si rendono conto che l’immagine del mondo che ha un cane o un gatto è assai differente di quella umana.

La vista nella specie umana

La nostra specie, configurata come le altre antropomorfe all’interno di un ambiente ricco di vegetazione e con un regime di vita prevalentemente onnivoro da raccoglitore, ha messo a punto un’elettività verso le onde luminose medio-basse, per esempio i colori che vanno dal giallo al rosso. Distinguere il verde (le foglie o il frutto acerbo) dal giallo (il frutto maturo), vale a dire creare una discrezione forte tra due frequenze, e avere un’attrazione per il rosso, colore che spicca su tutti gli altri e viene colto con maggiore facilità – stimolo prototipico – ci ha dato degli indubbi vantaggi di sopravvivenza, considerando la dieta e l’habitat dei nostri progenitori. Questo è rimasto anche quando le prime australopitecine hanno abbandonato o, meglio, si sono trovate al di fuori dell’ambiente di foresta e hanno modificato il loro regime alimentare verso una maggiore prevalenza di uova, larve e carogne animali.

Vedere al crepuscolo

Le cose stanno diversamente per i predatori crepuscolari, come i leopardi o i lupi, che sono più sensibili ad altre frequenze, come il blu o il viola, e sono provvisti del “tappeto lucido” vale a dire della proprietà di riflettere il fotone in modo tale da raddoppiare la luminosità di un contesto. Per un cane i colori verde, giallo, arancione, rosso non sono entità separate ma costituiscono una banda di gialli, tra l’altro poco interessanti, mentre invece quella che per noi è la scala dei blu per questo animale potrebbe essere qualcos’altro.
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Brano tratto da Roberto Marchesini, Geometrie esistenziali, Apeiron 2018.

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