Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

Empatia allargata

empatia allargata
Immagine di copertina: Esther TheWonder PIg/Twitter

Sovente sentiamo ripetere che amare gli animali, provare compassione per le loro sofferenze, rifiutare un modello sociale fondato sullo sfruttamento del non-umano, vuol dire ignorare l’essere umano, non provare empatia per il prossimo, preferire il cagnolino al migrante e via dicendo.

Ci sono modi più o meno sottili per dirlo, pulpiti più o meno importanti, ma sempre, alla base di queste affermazioni si nasconde una profonda ignoranza, per non dire di peggio. Già, perché in realtà la litania del “preferiscono gli animali alle persone” non è solo il frutto di una povertà di conoscenze ma di un’arroganza chiusa in se stessa, tautologicamente arroccata su presupposti che non si vogliono mettere in discussione né tanto meno indagare. Ma facciamo un passo indietro, prima di guardare la carta d’identità dei nuovi Soloni.

Innanzitutto l’empatia verso la sofferenza riguarda la condizione di animalità – l’essere un corpo sensibile al dolore, già lo sapeva Bentham – e non si tratta di una qualità che pone differenze tra l’uomo e le altre specie. Pertanto, se uno prova compassione verso la sofferenza, non esprime preferenze.
Ma ovviamente anche questo non va bene: come non preferire l’essere umano all’animale? Passiamo oltre al fatto che, se dico di provare compassione per un animale, non necessariamente questo implica che metta tutti sullo stesso piano. La partecipazione alla sofferenza altrui, si sa, presenta viraggi che non sempre seguono percorsi di coerenza, altrimenti dovremmo stare in un’eterna condizione di malessere.

empatia allargata
John Unger e il suo cane Schoep © Hannah Storehouse Hudson Stonehouse Photo

D’altro canto prendiamo in considerazione la capacità di compassione, come se parlassimo di una qualità che riguarda l’individuo e che va dal valore massimo di chi si sacrifica per gli altri a quello minimo di chi pensa solo a se stesso. È evidente che chi è egoista lo è con tutti, senza differenza alcuna: la generosità e la capacità di partecipazione è un predicato della persona, non una declinazione. Potremmo per giunta affermare che chi è sensibile verso ogni forma di sofferenza, anche quella muta o non comprensibile, espressa da qualcuno che non è morfologicamente vicino, criptata da abitudini e tradizioni che dovrebbero averla resa silente alla propria sensibilità, ha una maggiore capacità per sentire la sofferenza umana anche quando si manifesta nelle spoglie di una lontananza culturale o geografica.

Peraltro è cosa risaputa che le forme di desensibilizzazione propedeutiche alla nobile arte della guerra hanno sempre trovato i loro seminari nella pratica venatoria, nelle feste sadiche, nelle tecniche di macellazione. Non è un caso se lo sgozzare il nemico presenta un nesso imprescindibile nella prassi di giugulazione, una tecnica resasi necessaria dal bisogno di conservare la carne e quindi di far defluire il sangue a cuore battente.

Ma l’aspetto a mio avviso ancor più sconcertante è il falso moralismo nei confronti della sofferenza, della povertà, della guerra espresso da chi ha costruito il proprio potere attraverso le logiche capitalistico-finanziarie di sfruttamento altrui. Questo sì che è pietismo! Forse si dovrebbero ricordare, questi cari magnati, della filantropia che la sofferenza di cui l’umanità è grondante nasce dagli stessi presupposti ideologici con cui si stigmatizza l’antispecismo.

Immagine di copertina: Esther TheWonder Pig/Twitter

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